Famiglia

La memoria? non facciamocene un idolo

Haim Baharier, Direttore del Centro Binah, critica il labirinto vuoto in cui ci siamo infilati con il culto della memoria celebrativa...

di Sara De Carli

Il 27 gennaio è la Giornata della memoria. La settima. Una data che quest?anno cade di shabbat. Giorno della pienezza e del riposo. Il settimo giorno. Ci saranno ebrei che violeranno lo shabbat per partecipare alle iniziative che si affastellano in quella data. Haim Baharier non lo farà. Direttore del Centro Binah, critica il labirinto vuoto in cui ci siamo infilati con il culto della memoria celebrativa. Una critica fatta in punta di piedi, ma che genera un percorso altro.

Vita: Qual è il punto debole della Giornata della memoria?
Haim Baharier : Ho la sensazione che stiamo commettendo un tragico errore. La memoria celebrativa è solo un idolo, e gli idoli sono sempre perversi. Lo dico con molto timore, perché non voglio offendere la memoria di cui i superstiti sono portatori. Mio papà pesava 31 chili quando è uscito da Auschwitz, un involucro di ossa. Ho ancora mia mamma e mia suocera, reduci da Auschwitz, e quando faccio questo discorso so di ferirle, perché hanno l?impressione che gli venga disconosciuto qualcosa. Occorre tutta l?umanità possibile per parlarne.

Vita: Però dice che la memoria celebrativa è un labirinto vuoto?
Baharier: Ci sono due cose che non capisco. Una è l?insistenza sull?unicità della Shoa: il popolo di Israel – e non è l?unico – ha subìto molti tentativi di sterminio nel corso della storia. L?altra è l?equazione fra mantenimento della memoria e il non ripetersi dell?evento: un?equazione di cui non vedo il nesso causale. La memoria non ha mai impedito il darsi di fenomeni negativi né il darsi di quelli positivi.

Vita: Eppure la memoria è un tratto fondativo dell?identità di Israel?
Baharier: Occorre precisare di quale memoria parliamo. La memoria di Israel si esprime nella notte che precede la Pasqua ebraica. Lì ricordiamo brevemente la schiavitù in Egitto, il tentato etnocidio, ma soprattutto narriamo l?uscita dall?Egitto, quindi l?uscita dalla Shoa. L?ebraico per la narrazione ha due verbi e due sostantivi: lesapér/sipùr, raccontare/racconto e lehaghìd/agadà, narrare/narrazione. Lesapér è un linguaggio testimone di un sapere sul quale non abbiamo influenza, oggettivo, distaccato. Lehaghìd è un racconto coinvolto, soggettivo. In quella famosa sera di Pasqua, per dire della permanenza in Egitto, i saggi usano il primo verbo: sono avvenimenti lontani da noi. Non ci possiamo fare niente: il nazismo è indipendente da noi, non c?è rapporto tra la vittima e l?aguzzino, non ne possiamo trarre nessun insegnamento. Ma se prolunghiamo questo racconto con la narrazione dell?uscita – che è tutta la Torah – io rientro in gioco e tutta la narrazione si trasforma in agadà. A questo punto io non solo posso ma devo capire: io riesco a capire qualcosa dello sterminio se imparo ad uscire dalla sua logica. Il problema allora non è ricordare, ma imparare a uscire. Uscire dalla logica dello sterminio.

Vita: Concretamente cosa vuol dire?
Baharier: Che non si tratta di proporre immagini e dettagli scioccanti. Invece devo inventare e insegnare il pensiero che ci consente di uscire dalla illogicità dello sterminio, a recuperare la logica e quindi l?umanità. I 40 anni nel deserto sono questo: non elaborare ciò che è successo, ma elaborare la modalità di uscita, imparare a uscire da questa logica. Dopo la Shoa i 40 anni nel deserto non li abbiamo fatti e ci mancano. Concetto per concetto, si tratta di inventare un rapporto, una relazionalità diversa. Non so se ho il diritto di dire queste cose, però mio padre, prima di morire, mi ha detto: «Noi reduci siamo tutti morti ad Auschwitz. Spetta alla tua generazione uscire da Auschwitz, uscire dalla logica dello sterminio». E l?uscita non è una fuga: uscire ha la tzadé, una lettera che somiglia a un albero, la lettera della crescita. Bisogna uscire per crescere.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA