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La matita tedesca
Decimo appuntamento con i racconti dellestate: Dario Voltolini
Prosegue la serie dei racconti inediti scritti da affermati autori appositamente per ?Vita? sul tema ?Genitori e figli?. Questa settimana è il turno di Dario Voltolini. Nato aTorino nel 1959, ha pubblicato ?Una intuizione metropolitana (Bollati Boringhieri, 1990) e ?Rincorse?, per i tipi della Einaudi. Ha scritto anche i testi dei melologhi realizzati con Nicola Campogrande (?Mosorrofa, o dell?ottimismo?, su compact disc DDT). Si tratta di composizioni artistiche da recitare con un accompagnamento musicale.
Sugli scorsi numeri abbiamo già pubblicato i racconti di Luca Doninelli, Davide Rondoni, Bruno Rinaldi, Raul Montanari, Sandro Onofri, Erri De Luca, Vincenzo Gambardella, Enzo Fontana e Tiziano Scarpa. Prossimamente sarà il turno di Chiara Zocchi, Aurelio Picca e Paola Capriolo.
Il padre stava accanto alla madre, nella stanza in penombra. Non c?erano finestre. C?era solo una porta di vetro, ma era oscurata da una tenda, o da un pannello di cartone, così su tutto calava un colore verde, scuro ma trasparente. Anche sul padre e sulla madre.
La madre guardava il padre, senza parlare. Lui le restituiva lo sguardo, stando in piedi. Anche i rumori erano lontani, come se ogni oggetto in grado di vibrare appartenesse ormai al passato. Una lontananza temporale.
Eppure, quando un suono è lontano nel tempo, non nello spazio, ciò che permane di esso è solo il ricordo.
Quando persone passavano veloci nel corridoio oltre la porta oscurata, loro se ne accorgevano solo perché l?ombra sul pavimento s?infittiva.
E naturalmente in entrambi durava l?attesa che una di quelle persone finalmente aprisse la porta ed entrasse nella stanza e si dirigesse verso loro due, volontariamente: che lo facesse apposta, cioè che venisse lì per loro.
E tutto il tempo trascorso senza che ciò accadesse era tempo perso o era tempo guadagnato?
Autostrada. Lui tornava guidando veloce da Milano: non era in ritardo, ma lo stesso voleva arrivare impiegando il minor tempo possibile. Giunto in città, avrebbe dovuto ancora infilarsi nel traffico e raggiungere lo studio medico dove avevano appuntamento. La lentezza dei movimenti cittadini è imprevedibile, dunque era meglio guadagnare un certo margine, arrivare presto.
Sempre nella corsia di sorpasso, dunque, senza esagerare, però mantenendo la velocità alta, un poco più alta del consentito. Di tanto in tanto nel retrovisore si espandeva il muso di un?auto lampeggiante che chiedeva di passare. Lui si spostava nella corsia centrale, poi ritornava in quella di sorpasso.
E già quel giorno, ora se ne rende conto, in lui la percezione del pericolo era sensibilmente cambiata. Non che avesse più paura. Non era quello, né lo sarebbe stato in seguito, quando il fenomeno avrebbe infine assunto una rilevanza maggiore. Sempre, guidando, e soprattutto guidando velocemente, qualcosa nel nucleo della sua attenzione si accendeva e restava in ascolto. Ma quel giorno c?era qualcosa di più.
Poi gli autocarri si fecero più fitti sull?autostrada, le automobili più ravvicinate, i sorpassi meno perentori e infine qualcuno là davanti cominciò, frenando, a lanciare stop intermittenti: coda.
Un lavoro sull?asfalto? Un incidente?
Erano tutti fermi, solo qualcuno teneva acceso il motore. Dall?alto degli abitacoli dei Tir i camionisti guardavano avanti. Dai loro scatolotti sapevano già tutto da tempo.
Incidente.
Nella penombra di quella stanza, che sarebbe rimasta per la madre e per il padre una stanza importante, cominciarono a parlarsi a bassa voce, benché non ci fosse nessun altro lì con loro, nessuno che avrebbero potuto disturbare con i loro discorsi, nessuno a cui tenerli segreti.
La madre parlava. Raccontava fatti e avvenimenti a cui anche il padre aveva partecipato, o a cui aveva semplicemente assistito (per quella distanza dalle cose che ogni tanto viene verso di te e ti prende, ti fa ruotare di qualche grado, ti disloca dalla situazione, che nonostante ciò resta la stessa, e tu la vivi ugualmente, ma con quello scarto, che altri non si possono permettere). Raccontandoli, li sistemava nella memoria. Anche in quella del padre, silenziosamente felice che la madre stesse raccontando per sé e per lui contemporaneamente.
Erano fatti e avvenimenti non lontani nel tempo, alcuni anzi assai prossimi.
L?autostrada era un parcheggio. Automobilisti uscivano sull?asfalto lasciando le portiere spalancate (l?imbottigliamento, rendendolo impossibile, cancellava in tutti il timore di un furto d?auto).
Lui guardava l?orologio. Il vantaggio accumulato fino a quel momento stava cominciando ad assottigliarsi. Calcolando di viaggiare, una volta superato l?ostacolo, ancora più velocemente di quanto avesse fatto fino ad allora, il tempo a sua disposizione per poter stare fermo immobile lì dov?era senza cominciare ad accumulare ritardo era poco più di tre quarti d?ora, mezza partita di calcio.
E passò il primo quarto d?ora.
E passò il secondo quarto d?ora.
E poi passò via anche il terzo.
Se non avesse avuto l?appuntamento, sarebbero passati lentissimamente: così, invece, un lampo.
La madre parlava piano, facendo lunghe pause. Il padre in quelle pause aggiungeva qualche considerazione. Tutti e due lasciavano che il silenzio della stanza a poco a poco smaltisse il dolore delle ferite, attutisse le sensazioni urlanti. Come lenitivo il silenzio funziona però solo dopo un certo tempo. Subito sembra che tutto anzi venga esagerato.
Forse per quello parlavano: per rendere il silenzio meno intero. Forse per quello parlavano piano: per non disperdere il silenzio.
Figure oltre la porta.
Si avvicinavano, poi se ne andavano.
Ormai non avrebbe più potuto colmare il ritardo. Nemmeno se la situazione si fosse sbloccata immediatamente. Inoltre, tutto faceva pensare che non si sarebbero mossi di lì per molto tempo ancora.
Un uomo s?era appisolato al volante. Giovani salivano sui cofani per vedere più lontano. Un camionista disse di sapere che c?era stato un incidente più avanti: niente di grave, solo un camion di traverso immobile. Duecento metri prima c?era un?uscita dell?autostrada, ma ormai non la poteva più raggiungere. Dietro la sua macchina la coda appariva senza fine.
Pensò che in qualche modo doveva avvertire. Ma intanto percepiva anche come quel ritardo fosse diverso da tutti i suoi ritardi precedenti. Saltava l?appuntamento con lei, ma non solo con lei. In altre parole: avrebbe dovuto essere puntuale non solo per lei, ma anche per sé, e non solo per entrambi.
Lei uscì di casa pensando che lui non sarebbe arrivato in tempo. Ma il fatto che non avesse telefonato per avvertirla faceva supporre a un contrattempo in autostrada. Ora però lei non poteva più aspettare o avrebbe fatto tardi per l?ecografia.
Guidò fino allo studio medico. Pensava che era strano, ma non si sentiva preoccupata per lui, anche se era molto dispiaciuta che non ci fosse. Eppure, in altri momenti, il timore che gli fosse capitato qualcosa sarebbe stato più grande. Quale equilibrio di spazi, quale distribuzione di superfici stava lentamente modificandosi?
Lui cominciò a camminare tra le automobili e i camion fermi e spenti. L?aspetto dell?autostrada era ormai quello di un bivacco. Nella sua passeggiata a ritroso, in cui aveva solo voluto trovare sollievo all?oppressione, curiosava negli abitacoli delle macchine.
Gli venne in mente che poteva farsi prestare un cellulare e chiamare per avvertire, per dare sue notizie.
Dopo qualche tentativo trovò un uomo che gli prestò il suo cellulare. Gli disse di aspettare, sarebbe tornato subito. Corse alla macchina, prese l?agenda, tornò indietro, controllando di aver trascritto il numero dello studio medico.
Il numero c?era. Chiamò con il cellulare. Intanto pensava: quando mai, prima d?allora, si era appuntato il numero di telefono di uno studio medico?
Rispose una giovane donna, l?assistente del dottore. Lui spiegò che lì doveva esserci sua moglie. La donna disse di aspettare. Passò qualche secondo molto elastico e dilatato.
Mentre l?apparecchio impiastrato di gel lubrificante le veniva passato sul ventre, lei guardava sul video quel movimento di macchie chiare e scure, che in certi momenti sembravano fari di auto nella notte, altre volte spelonche o scogli o grinze di luce. Il dottore muoveva l?apparecchio e intanto commentava le immagini. Diceva anche di avere già acquistato un?apparecchiatura più sofisticata, che avrebbe permesso di identificare anche i flussi sanguigni, con un monitor a colori in cui il giallo avrebbe significato una direzione del flusso e il rosso quella contraria. Colori convenzionali, traduzioni visive di dati numeri fatti dal processore. Alla prossima ecografia, l?avrebbe vista.
I chiari e gli scuri intanto guizzavano nel video. Lei guardava dentro di sé, senza dubbio.
L?uomo che gli aveva prestato il cellulare era poco lontano. Lui lo guardava, gli era grato. La donna al telefono gli disse che sua moglie stava arrivando, e lo salutò.
Infine, passeggiando tra le auto ferme, sentì la voce di lei. Le spiegò dov?era, e perché. Lei gli disse che aveva fatto l?ecografia, che non si capiva niente, ma che a un certo punto il dottore aveva indicato un punto del video: ecco, aveva detto il dottore, ecco lì. E c?era una piccola figura minuscola che nelle ombre di quel paesaggio inaudito pulsava.
Il cuore, aveva detto il medico. Lei aveva guardato e l?aveva visto. E adesso lo diceva a lui: il cuore.
Quando restituì il cellulare, l?autostrada era una gabbia e lui smaniava come un grosso felino.
L?apparecchio era spento. Lei si era rivestita e ormai stava sulla soglia a scambiare qualche parola con il dottore. L?assistente venne verso di lei e le disse che c?era suo marito al telefono.
Chiese: dove sei? E poco dopo disse: ho visto il cuore. L?assistente le sorrise.
Quando mesi dopo una notte lei sentì qualcosa cedere dentro e si precipitò a prepararsi per andare all?ospedale, lui si trovò sveglio e in piedi e poi in macchina per le vie deserte della città nera e bagnata, lungo il percorso che avevano stabilito nei giorni precedenti, e lei percepiva ogni cosa riconoscendola, eppure era la prima volta.
Quando dieci ore dopo le contrazioni, che erano in realtà una sola, dura e micidiale contrazione senza mai un vero e proprio rilassamento che non fosse una tregua breve e insoddisfacente, continuavano il loro assalto e le ore diventavano undici e il suono dell?apparecchio per i tracciati dava il ritmo a tutta la corsia dell?ospedale, lei dubitò di poterne venire a capo.
La doccia calda, l?iniezione di antispastico, i massaggi alle reni che lui le faceva, le posizioni, seduta, appoggiata sulla sedia, con il cuscino, senza, con i gomiti sul tavolo, in piedi, e niente, niente che non fosse quel dolore lungo come una sirena.
Quando in un attimo tutta l?attesa si risolse in un vortice di azioni, lui non ebbe il tempo per capire che tutto ciò a cui avevano pensato in quei mesi, tutto ciò a cui avevano cercato di prepararsi, stava accadendo. Dalla stanza al corridoio, una visita in sala travaglio, un altro tracciato, presto, presto, chiamate il medico, mezza giornata ferma come un lago e adesso tutto quel fragore, presto, veloci. Lei quasi non poteva immaginare che il dolore potesse mutare, e quello addirittura aumentava.
E presto di corsa in sala parto, con il medico che diceva frasi facili facili, ma dal significato arcano: lo tengo, lo tengo io, presto.
Nella sala parto lui si trovò vestito di verde. Tranne loro due, tutti erano al colmo dell?attività: quanti erano? Lui in una fessura strettissima di silenzio riuscì a infilare una domanda al medico: come va? E la risposta, sommersa nei rumori del dolore e degli incitamenti e dell?attività di tutto il gruppo, arrivò anch?essa semplice e arcana: sta nascendo.
Quando l?ultimo strappo fu dato e il dolore coprì i dolori precedenti e persino quelli successivi, lei tremava. Lui fu chiamato in fondo alla sala, dove gli venne richiesto di scrivere il nome sulla pelle della bambina, senza premere troppo, gli dissero, e gli diedero una matita Staedtler Glasochrom 108 20-9 für alle Flächen for all surfaces pur toutes surfaces compresa la pelle della bambina, e subito la perse di vista, perché gliela sottrassero.
Tornò da lei, stringendo in mano la matita che non volle restituire. Lei non sapeva com?era riuscita a farcela.
Nella stanza in penombra la madre e il padre parlavano semplicemente dicendo alcuni fatti, senza raccordarli, senza interpretarli. La stanza stessa appariva spossata, sfinita. Gli oggetti se ne stavano immobili, anch?essi irrelati.
Poi un?ombra si avvicinò alla porta. La porta si aprì. Un?infermiera entrò nella stanza. Aveva un fagotto e lo portò a loro. Dentro c?era la figlia.
L?infermiera uscì dalla stanza e li lasciò soli, anche se non era più la parola esatta.
E quella vita nuova occupava il proprio spazio, modificando ogni assetto precedente, imponendo che intere costruzioni apparentemente solidificate si riarticolassero in diversa configurazione.
Così la paura per sé, che era già stata domata negli anni, riprese coraggio nella veste di paura per la bambina, o – più infida – di paura per sé rispetto alla bambina: lui aveva imparato a fregarsene del pericolo che si corre viaggiando in autostrada, ora – già da quel giorno dell?incidente – doveva impararlo di nuovo, come padre.
Così addirittura i loro morti, quelli che con fatica si erano finalmente sistemati nella memoria e quelli che piano piano cominciavano a farlo, ricominciavano a muoversi nella mente, la situazione era cambiata anche per loro.
Così questa imprevedibile complicazione della vita che si modificava anche all?indietro entrava a far parte della nuova condizione. La bambina aveva il potere di spazzare via tutto, come lisciando una stoffa morbida con il palmo della mano, solamente sorridendo. D?accordo.
Ma la naturalezza della sua presenza era stupefacente, cioè persino misteriosa.
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