Sostenibilità

La mappa è il territorio: viaggio dall’Italia dell’antropocene

Il nostro territorio non è statico e immobile, ma cambia e si evolve. Affrontare oggi i rischi di domani significa capire a fondo che cos'è un territorio, dotandosi di nuove mappe e nuovi punti di riferimento. Lo fanno Telmo Pievani e Mauro Varotto in un racconto di "geografia visionaria" che immagina l'Italia che verrà tra eventi estremi, innalzamento del livello dei mari e fuga dalle città

di Marco Dotti

Nelle città italiane, che corrispondono a una superficie di poco meno di 27.000 km2, appena l’8,8% del territorio nazionale, vive oggi oltre il 56% della popolazione. Forse è il caso «di rifondare il concetto di urbanità, rendendolo più poroso, rarefatto, efficiente, per uscire dal circolo vizioso in cui sono finiti i nostri centri abitati: realtà urbane vulnerabili e sempre più esposte agli effetti di un clima che cambia, e insieme principali responsabili delle emissioni di gas serra e dunque artefici del loro stesso tragico destino».

Con queste parole il filosofo della scienza Telmo Pievani e il geografo Mauro Varotto pongono una grande questione. Lo fanno nel loro ultimo libro, Viaggio nell'Italia dell'antropocene, uscito da poco per i tipi di Aboca edizioni, racconto di geografia visionaria per pensare il nostro futuro arricchito dalla mappe di Francesco Ferrarese.

L’idea del libro, ci racconta Varotto, docente di geografia all'Università di Padova, nasce da una mappa realizzata nel 1940 dal geografo Bruno Castiglioni per i tipi del Touring Club Italiano e oggi esposta nella Sala dedicata al Clima del Museo di Geografia dell’Università di Padova.

Un mappa che «rappresenta due Italie molto diverse: un’esile silhouette peninsulare nella fase finale del Pliocene, risalente a 2,5 milioni di anni fa, quando la Pianura Padana ancora non esisteva e al suo posto si trovavano le calde acque tropicali del golfo pliocenico padano, e una più tozza conformazione corrispondente alla fase fredda dell’ultimo massimo glaciale, intorno a 20.000 anni fa, quando la costa adriatica si chiudeva all’altezza di Ancona».

Una mappa capace oggi più che mai di spiegare come ciò che chiamiamo Italia sia «stata nei millenni estremamente mobile, per ragioni tettoniche, morfogenetiche, climatiche, e in ultimo anche antropiche, dal momento che oggi ci troviamo alle soglie di una nuova era, l’Antropocene, in cui è l’uomo stesso a modi care sensibilmente gli equilibri ereditati, con una accelerazione inedita verso una nuova fase calda planetaria».

Ma che cosa spinge due autori, un geografo come Varotto e un filosofo della scienza come Pievani, a immaginare l'Italia che sarà – delineando uno scenario che ha come deadline il 2786 – partendo da una mappa di oltre settant'anni or sono? Ce lo spiega proprio Varotto.

La geografia può aiutarci a capire il futuro che ci aspetta?
Partiamo dall'idea espressa dalla geografia del Piccolo Principe che parla solo di cose eterne e che non si muovono. Noi abbiamo preso la mappa di Castiglioni e l'abbiamo spostata dal passato al futuro per capire che cosa succede.

E che cosa succede?
Innanzittutto cambia la nostra percezione della mobilità dei fenomeni che ci coinvolgono, rendendoci consapevoli del fatto che niente è fisso e niente è immutabile. Per questo dobbiamo attrezzarci per comprendere le dinamiche di trasformazione del nostro territorio, in questo caso legate proprio al cambiamento climatico. C'è, poi, un altro aspetto che possiamo sottolineare: una mappa fotografa una realtà.

Siamo abituati a parlare di mappe come se si trattasse di qualcosa di fisso, oggi con le mappe digitali tutto si muove e tutto è costruito attorno al soggetto e si compone man mano che il soggetto si muove. Ma con questa nuova configurazione delle mappe perdiamo i punti fissi. È un paradosso, ma molto significativo: le mappe digitali, che sono sempre più performanti, ci mettono a contatto con l'istantaneità, mentre fissare una mappa del passato ci consente di uscire da questo movimento continuo e incessante senza punti di riferimento.

Questo accade anche con le mappe del futuro, che nel libro sono disegnate da Francesco Ferrarese…
Fissare una mappa ci permette di ragionare sui tempi lunghi. Il cambiamento climatico, ad esempio, ha a che fare con tempi lunghi, anche se non lunghi a tal punto da non destare qui e ora una più che giustificata preoccupazione. Inoltre, nei tempi lunghi possiamo cogliere gli esiti estremi a cui possiamo arrivare: fissare una mappa è un invito a pensare al presente, cogliendo le tendenze nei tempi più dilatati. È proprio quello che dobbiamo fare sul tema del clima, un tema spesso schiacciato sul qui e ora.

Qui entriamo direttamente nell'ambito della geografia visionaria, che è il sottotitolo del vostro libro…
L'aggettivo "visionaria", attribuito alla geografia ha un duplice significato. Il primo, ovviamente, è legato alla fantasia. Il secondo significato è quello di un sapere per prevedere, un vedere avanti rispetto agli altri. La geografia visionaria si serve degli strumenti scientifici di cui dispone non per farci fuggire in chissà quale altrove, ma per farci agire meglio più consapevolezza sul nostro tempo.

La geografia è una materia che, da sempre, ha rifiutato la specializzazione. È una materia generalista che, per forza di cose, ha mantenuto uno sguardo ampio non strettamente ancorato a un settore disciplinare. Questo, che è un suo punto di debolezza, è anche un suo punto di forza. Il punto di forza della geografia mette insieme saperi e questioni diverse che incidono tutte sul territorio. Nel libro, partendo dal territorio, immaginiamo diversi aspetti: quello demografico, quello ambientale, quello climatico in senso stretto, quello geopolitico, quello produttivo…

Una moltiplicazione di punti di vista…
Direi una connessione di punti di vista: ogni aspetto della grande questione del cambiamento climatico si interconnette con altri aspetti. Solo cogliendoli tutti capiamo la portata della sfida che ci si presenta.

Qual è l'aspetto di questa grande questione che ci deve preoccupare di più?
Dal punto di vista degli effetti del cambiamento vedo due cose che sono cresciute molto. La prima è il tema degli eventi estremi, che è l'aspetto meno prevedibile: l'evento estremo può avvenire ovunque, proprio perché è cambiata la magnitudo delle forze in gioco e questa si scarica qua o là a seconda delle situazione. Mentre l'innalzamento del livello del mare può interessare solo le zone costiere, nessun luogo è al riparo da un evento estremo.

Parlava poi di una seconda cosa che ci dovrebbe preoccupare…
L'innalzamento delle temperature della vita urbana. Le città saranno sempre più difficili da vivere, almeno per come sono concepite ora. Si parla sempre più di notti tropicali, di isole di calore e di situazione di difficoltà legate proprio all'aumento delle temperature. Questi fenomeni spingono sempre più persone ad andarsene dalle città. Ma spingono anche alla necessità di ripensare completamente le città. Il fatto che una città sia un luogo completamente artificializzato, privo di verde, privo di luoghi che possano ridurre le isole di calore dovrebbe essere al centro delle nostre attenzioni. Non so dove andremo. Non so se riusciremo prima a cambiare le città o se, invece, fuggiremo prima dalle città.

Credits: le mappe di questo articolo sono di Francesco Ferrarese dell'Università di Padova – Museo di Geografia

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