Famiglia
La mappa dei community organizer italiani
Cittadinanza inclusiva, lotta all'emarginazione, movimento dal basso: molto diffuso negli Stati Uniti, il community organizing sta prendendo piede anche da noi. Ecco dove e come
di Marco Dotti
Danilo Dolci, Adriano Olivetti, Aldo Capitini, Lorenzo Milani. La pratica di organizzare comunità, facendo sentire voci destinate al silenzio e intravvedere volti altrimenti consegnati all’invisibilità ha una lunga storia in Italia. Ma è una storia che, al di là di esperienze esemplari ma sporadiche, non si è fatta sistema. Almeno fino a tempi recenti – ne abbiamo parlato anche nel numero di settembre di Vita – quando la pratica e le competenze del community organizing hanno cominciato a diffondersi anche nel nostro Paese.
Pratica e visione del community organizing
Ma che cos’è il community organizing? Ce lo spiega Diego Galli, una lunga esperienza tra gli organizer degli Stati Uniti e tra i fondatori di Community Organizing Italia, associazione senza scopo di lucro fondata quattro anni fa. L’associazione sostiene le proprie iniziative grazie al supporto economico della Open Society Foundation, della Fondazione Charlemagne, dell’8×1000 della Chiesa Battista e dell’impresa sociale Con i bambini: i finanziamenti nel 2020 sono stati di 51 mila euro, per lo più investiti in risorse umane (due lead organizer e amministrazione) e materiale informativo.
«Il community organizer è un organizzatore di istanze civiche», racconta Galli. L’organizing, prosegue Galli citando Obama, «muove dalla premessa che i problemi che devono affrontare le comunità, per esempio in una periferia, non sono una conseguenza della mancanza di soluzioni efficaci, ma della mancanza di potere per implementare queste soluzioni».
Community Organizing Italia ha sede a Roma e Torino, è affiliata all’Industrial Areas Foundation, rete internazionale tra le più consolidate e riconosciute in questo ambito, ed è il vero epicentro delle iniziative di formazione per i nuovi organizzatori di comunità che si stanno diffondendo dalla Capitale al resto del Paese. Roma, infatti, si sta rivelando un terreno fertile per questo tipo di approccio.
Ad oggi sono circa oltre settanta le associazioni civiche che, sul territorio italiano, sono state coinvolte in percorsi formativi supportati organizzativamente e materialmente da fondazioni come la Charlemagne o del network internazionale del community organizing.
Come agiscono i community organizer? A raccontarlo è don Alberto Orlando, parroco Santa Maria Madre della Provvidenza nel centralissimo quartiere Monteverde a Roma. Don Alberto è stato a Chicago per capire e vedere come si muovono, come si formano e quale metodo usano gli organizzatori di comunità.
Il metodo, spiega, «si basa essenzialmente sull’ascolto». Ascoltare, però, «non significa stare in silenzio senza interrompere l’altro: significa far uscire da lui ciò che è in lui in termini di bisogni, necessità, progettualità e risorse. È un processo lungo e faticoso, che richiede competenze multiple, una forte dose di attivismo e la capacità di lavorare in gruppo dandosi del tempo». Oggi nella parrocchia di don Alberto c’è un’équipe di dieci leader, che hanno formato e formano altre decine di organizzatori. «Il processo, una volta innescato, si moltiplica e ogni cittadino diventa di fatto un piccolo leader», aggiunge don Alberto. A quel punto, il lavoro del community organizer è fatto e la comunità ha imparato a far emergere da sé le proprie istanze.
Dal centro della Capitale alle periferie, conclude don Alberto, «questo approccio si è diffuso a macchia d’olio, segno che c’è un terreno fertile per queste pratiche».
Dalle periferie al centro
Chi sono, oggi, i community organizer? «Sono per lo più giovani, delusi dai canali tradizionali della politica, che talvolta hanno smesso di fidarsi anche dei corpi intermedi tradizionali». Educatori, progettisti, architetti, cooperatori: «tutti si definiscono, però, semplici cittadini». Così la vede il professor Luca Ozzano, che con l’Università di Torino ha messo in campo un progetto nella zona Barriera di Milano. Con la organizer Sara Fenoglio, Ozzano ha dato vita a un progetto pilota – incardinato in un progetto universitario di ricerca sulla qualità della vita nei quartieri di Torino e finanziato dalla Fondazione CRT – che ha come tema la «convivenza interreligiosa» nella città della Mole.
Giovani che si attivano su temi come l’inclusione sociale, la lotta alle discriminazioni, la sfida delle comunità educanti o studiano come servirsi di strumenti giuridici innovativi per la gestione e la salvaguardia di beni comuni: come nella valle del fiume Simeto, a Catania, dove grazie alla lead organizer l’architetto Laura Saija, un territorio deturpato e devastato da decenni di abusi ha visto nascere un progetto giuridico innovativo come il «contratto di fiume». Si è partiti nel 2010 organizzando una comunità, si è proseguito mappando il territorio nelle sue declinazioni sociali, culturali e ambientali -attività che ha coinvolto, su base volontaria, oltre cinquecento persone per sei mesi – e si è infine arrivati a elaborare un corpus di regole che tenesse conto di tutte le istanze. Ne è nato un patto – firmato dall’Università di Catania, da numerosi comuni, da associazioni come l’Agesci – frutto di un lungo lavoro di comitati civici, associazioni, enti locali e ha ricostruito una comunità attorno a tre beni primari: l’acqua, relazione, la terra. Oggi il patto, che giuridicamente è di natura contrattuale, è custodito e controllato nella sua attuazione da dieci associazioni riunite in un Presidio permanente.
L’obiettivo del community organizing, spiega Alice Belotti, ricercatrice che vive negli Stati Uniti e da tempo si occupa di mapparne lo sviluppo e la storia,, è formare «leader locali e favorire la nascita di coalizioni civiche» per la rigenerazione urbana, lo sviluppo territoriale e l’inclusione sociale. Come? Allineando mezzi e fini in tre ambiti specifici di azione.
Gli spazi dell'agire comunitario
Primo ambito: le scuole. Le scuole sono viste, nella logica del community organizing come parte integrante delle comunità in cui si trovano. La scuola è al centro del progetto Periphery Organizing #DajeUnPO’, finanziato dall'impresa sociale Con I Bambini ed ha l'obiettivo di favorire la formazione di comunità educanti in grado di contrastare la povertà educativa e contribuire allo sviluppo socio-economico dei quartieri di Corviale, Tor Bella Monaca e Tor San Lorenzo, attraverso un percorso partecipativo incentrato sull'ascolto e lo sviluppo di una leadership diffusa.
I destinatari diretti del progetto sono 160 giovani, le loro famiglie, gli insegnanti e tutte realtà che, nei tre contesti di riferimento, si occupano di educazione o ruotano intorno a questo tema.
Ispirandosi a questi successi, il progetto Periphery Organizing mira a coinvolgere attivamente gli operatori della scuola, i genitori e le comunità per rispondere in modo concreto all’emergenza educativa che interessa le periferie.
I community organizers impegnati nel progetto sono: Maria Sara Cetraro (Corviale), Danilo Proietti (Tor Bella Monaca) e Giovanni Gaigher (Tor San Lorenzo).
Le tecniche principali del community organizing sono: incontri relazionali e di gruppo per ascoltare ciò che sta realmente a cuore agli abitanti di un quartiere e identificarne i potenziali leader, sollecitare il racconto e la condivisione di storie di vita invece dei dibattiti astratti per creare relazioni di fiducia tra persone diverse, l'analisi del potere per identificare i responsabili delle decisioni, la formazione continua dei leader per creare organizzazioni con una leadership condivisa, l'azione strategica per confrontarsi con decisori e assicurare risultati, l'autovalutazione continua per assicurare la crescita delle persone sulla base dell'azione.
Un altro ambito di azione del community organizing è la lotta all’emarginazione. L’80% del community organizing si basa sulla pratica degli incontri relazionali, faccia a faccia, della durata di circa 30-45 minuti. «Lo scopo dell’incontro non è reclutare o aprirsi una strada per fare politica di partito», spiega Carlo Stasolla dell’Associazione 21 luglio che, anche grazie al supporto dell’Università Tor Vergata e dopo aver partecipato a un bando, nell’ex fienile di Tor Bella Monaca ha creato un vero e proprio laboratorio di convivenza tra residenti italiani e rom. Nell’ex fienile ci sono spazi gioco, apprendimento, si preparano e organizzano corsi di formazione insistendo su due concetti chiave: l’intercultura e l’interetnicità.
L’Associazione 21 luglio si basa prevalentemente sul lavoro di volontari, è interamente autofinanziata da soci e donatori e per le sue attività di empowerment e organizing di persone e gruppi in condizioni di esclusione o addirittura di segregazione può contare sul supporto di una rete molto ampia di fondazioni: da Cariplo a Fondazione Con il Sud, da Migrantes alla Fondazione Johnson & Johnson.
Infine c'è il campo della cittadinanza inclusiva. L’esperienza pilota, in questo ambito, è quella di Italiani senza cittadinanza, movimento su base volontaria, autosostenuto e autorganizzato nato nel 2016 che, partito da Roma, ha trovato in Paula Isidora Baudet, cittadina italiane e cilena, segretaria nazionale dell’Associazione Nazionale Stampa Interculturale, la propria leader.
Gran parte delle mobilitazioni e delle campagne di sensibilizzazione sulle seconde generazioni, in particolare quello sullo ius culturae, partono da questa esperienza che si potrebbe definire di community organizing diffuso. La comunità, in questo caso, non si identifica con un territorio, ma «con un’idea di cittadinanza ampia, inclusiva, accogliente.
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