Quelli che curano chi cura

Il burnout del caregiver

Prendersi cura di un familiare espone a un sovraccarico fisico e mentale che ha conseguenze in termini di salute, sia fisica che psicologica. Tecnicamente si chiama compassion fatigue ed è molto comune. Che fare? In dialogo con Francesca Brandolini, responsabile del servizio di psicologia di Vidas

di Nicla Panciera

Con l’invecchiamento della popolazione e le malattie croniche in crescita, aumenta anche la preoccupazione per tutte quelle persone, la maggior parte donne, che si ritrovano a doversi prendere cura di un proprio caro non più autosufficiente perché anziano o malato. Il sovraccarico emotivo e fisico dell’assistenza ha pesanti conseguenze in termini di salute.

Il termine tecnico per indicare l’esaurimento delle energie tipico di chi convive a lungo con una situazione di sofferenza è “fatica della compassione”, dall’inglese compassion fatigue. «Portare per troppo tempo tale pesante fardello ha delle importanti conseguenze dovute a una sorta di stillicidio continuo che inizia con una riorganizzazione della propria vita e finisce con la perdita della speranza» spiega la psicologa psicoterapeuta Francesca Brandolini, responsabile del servizio di psicologia di Vidas, associazione di volontariato laica che offre assistenza sociosanitaria completa e gratuita a malati inguaribili. «Il caregiver rinuncia a parti di sé e della propria esistenza affrontando perdite in ogni dimensione della propria vita familiare e lavorativa, generalmente in una condizione di grande solitudine, vivendo emozioni contrastanti, dalla rabbia al senso di colpa, amplificate dalla mancanza di prospettive».

È dedicato ai caregiver il numero di VITA magazine La solitudine dei caregiver. Come vivono? Di cosa hanno più bisogno? Quali richieste alla politica, ai servizi, alla comunità tutta? Se hai un abbonamento, leggi subito qui oppure abbonati per scoprire il magazine e tutti gli altri contenuti dedicati.

Mancanza di speranza

Il caregiver informale, colui che senza remunerazione si prende cura di un parente o di un amico, va incontro a numerosi sovraccarichi: c’è un burden oggettivo, dovuto alle tante ore spese nell’assistenza, e un burden fisico, che è la fatica vissuta dal caregiver. Ma c’è anche un peso psicologico, dato dalla solitudine e dalla compassion fatigue; e un peso sociale, che include eventuali dinamiche conflittuali in famiglia e al lavoro associate all’attività di assistenza; e, infine, un peso emotivo, dovuto alle relazioni parentali che legano caregiver e assistito. Tuttavia, sintetizza Brandolini, «la fatica dei caregiver è dovuta principalmente alla mancanza di speranza, cioè di una prospettiva che li tenga ancorati a una progettualità di vita».

La fatica dei caregiver è dovuta principalmente alla mancanza di speranza, cioè di una prospettiva che li tenga ancorati a una progettualità di vita

Francesca Brandolini, responsabile del servizio di psicologia di Vidas

Una questione di genere

Gli studi dicono che le donne lamentano il peso di elevate aspettative su di sé e sono poco capaci di ribellarsi alle pressioni sociali. Anche in presenza di più figli, il peso non è equamente distribuito ed è la femmina quella che generalmente si fa carico dei genitori, al massimo aiutata dalle nuore. La psicologa conferma che a pesare moltissimo è proprio «il permanere di quel retaggio culturale che descrive le donne come persone con una maggior propensione alle attività di cura e all’abnegazione e con una scarsa tendenza a delegare, come se dovessero farsi completamente carico dell’altro, 24 ore su 24, costantemente».

Rabbia e sensi di colpa

Il senso di colpa per la rabbia provata nel vedersi privare di tempo, vita, salute e il diritto di dirlo è comune nei caregiver. «La rabbia e la frustrazione sono legate alla perdita di speranza e alla paura, esattamente come accade per ciascuno di noi, quando si vedono i proprio bisogni insoddisfatti» spiega la psicologa. «La domanda cui dare risposta di fronte a questo campanello d’allarme è Cosa mi sta soffocando di più di questa situazione da cui non posso sfilarmi? È come attraversare a nuoto un mare in tempesta e capire come respirare ogni volta che si fa una bracciata».

Ambivalenza

Nel caso dei caregiver familiari, poi, le relazioni esistenti tra assistente e assistito – e tutti coloro che orbitano intorno – sono fondamentali. È in gioco tutta una sfera personale rilevantissima nel determinare il vissuto del caregiver, come spiega Brandolini: «Nel caso della caregiver designata in quanto donna, la moglie o la figlia si trovano in una posizione in cui, dopotutto, finalmente si sentono riconosciute. Questa sorta di inversione dei ruoli è appagante, c’è la speranza di ricevere gratitudine, elemosinando un grazie che può non arrivare mai. O, al massimo, arrivare da un individuo esterno alla famiglia. Questa ambivalenza di sentimenti, tra rabbia e desiderio di riconoscimento, a lungo andare sfinisce».

Chiedere (e fornire) aiuto

Dell’esaurimento spesso si colpevolizza lo stesso caregiver, accusato di volersi immolare e di essere incapace di prendersi cura di sé. C’è chi legittima una fuga per andare in farmacia, ma poi rientra subito. C’è chi è stanco di dover sempre chiedere e preferisce quindi arrangiarsi. «Oltre che garantire una miglior tenuta fisica e psicologica della caregiver, che spesso fatica a legittimare la possibilità di chiedere aiuto, concedersi degli spazi si traduce in una miglior qualità dell’assistenza ed è, quindi, anche una decisione buona per l’assistito» spiega Brandolini.

La rete di conoscenze del caregiver rischia di non capire in che vicolo cieco egli sia finito e con il tempo si sfalda, complice anche la mancanza di tempo di chi assiste. È salvifico il confronto con gli altri caregiver, che spesso si uniscono anche in modo informale e spontaneo

Va detto che «la rete di conoscenze del caregiver rischia di non capire in che vicolo cieco egli sia finito e con il tempo si sfalda, complice anche la mancanza di tempo di chi assiste», cui viene così a mancare anche il conforto degli amici. Conta la presenza dell’altro, di un familiare disponibile non solo a parole, che aiuti concretamente, ma è molto importante il rapporto con il gruppo. «È salvifico il confronto con il gruppo dei propri pari, gli altri caregiver, che spesso si uniscono anche in modo informale e spontaneo. La condivisione di emozioni, vissuti e pensieri tra persone che comprendono perché vivono le stesse esperienze aiuta a capire che non si è soli a pensare, ad esempio, “non vedo l’ora che finisca”, e questo fa stare meglio».

Foto di Clayton Fidelis su Unsplash

17 centesimi al giorno sono troppi?

Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.