Cultura
La maglia azzurra si è messa le stellette
L'80% degli atleti proviene da Forze armate e Polizia
Nella spedizione record di Lillehammer le divise in gara erano solo il 40%. «Per sostenere i “civili” meno soldi al Coni e più allo sport di base», propone Pietro Mennea La sfida è superare le 20 medaglie di Lillehammer. Dodici, una in più delle 11 raggranellate ai Giochi di Torino 2006, sarebbe tuttavia un buon risultato. Comunque vada, però, alle XXI Olimpiadi invernali di Vancouver in Canada (12-28 febbraio), l’Italia un primato interno lo ha già ottenuto. Il numero più alto di atleti militari in gara nelle ultime quattro edizioni. Otto sportivi su dieci provengono dai gruppi delle Forze armate e dei Corpi di polizia (Fiamme gialle, azzurre, oro, Esercito etc). Il 79,8% della squadra italiana, per l’esattezza, contro il 40% di Lillehammer 1994.
Discipline come sci di fondo, slittino, biathlon, salto e pattinaggio di velocità saranno interamente rappresentate in Canada da sportivi in divisa. Carolina Kostner (nella foto), regina del pattinaggio di figura, è, solo per fare un esempio, delle Fiamme azzurre. Idem alle Olimpiadi estive. A Pechino, nel 2008, la metà dei selezionati azzurri aveva le stellette contro un terzo ai Giochi di Atlanta, Sidney e Atene. Non siamo, certo, nelle palestre della Ddr di Honecker, gli impianti e i mezzi per allenarsi sono, tuttavia, statali. Pubblico, soprattutto, è lo stipendio da arruolati. La legge 78/2000 ha previsto infatti l’assunzione tramite concorso degli atleti di «livello nazionale» nei gruppi sportivi militari. I campioni reclutati sono esentati dal servizio (tranne i Vigili del fuoco) e, a fine carriera sportiva o se non ottengono risultati, passano nei ruoli ordinari, ad esempio come finanzieri o agenti penitenziari (Carabinieri e Forze armate prevedono un ulteriore concorso). Il meccanismo assicura spazio e tempo per gli allenamenti e sicurezza economica. E i risultati si vedono. I medagliati di Pechino e Torino sono stati in maggioranza militari. Ma c’è anche una ragione più ovvia: i gruppi con le stellette raccolgono l’élite delle discipline nazionali. «Senza i militari, lo sport italiano sarebbe poca cosa nel mondo», ammette Pietro Mennea, velocista olimpionico e primatista tesserato per gruppi “civili” tranne nell’anno di leva in Aeronautica. Chi vede di buon occhio la legge 78 ritiene che favorisca anche la diffusione dello sport, di tutt’altra opinione è Stefano Frapiccini, autore nel 2008 del libro Atleti di Stato. C’è il rischio, innanzitutto, di marginalizzare le società sportive non militari.
Il secondo timore riguarda la democrazia interna delle federazioni sportive. La possibilità di far stipendiare gli atleti dalla collettività può diventare per i gruppi sportivi di Stato un «formidabile sistema di acquisizione di consenso nelle elezioni all’interno delle federazioni». Secondo Mennea, invece, il vero guaio delle federazioni è l’onnipresenza di dirigenti in sella da decenni. Come uscirne? Il campione di Città del Messico propone di istituire scuole di alta specializzazione, tagliare da 470 a 100 milioni il contributo statale al Coni e di destinare le somme allo sport di base e alle scuole. Frapiccini, invece, di eliminare l’assunzione nei Corpi, istituire un sussidio-rimborso per gli atleti e favorire sia il professionismo che l’ingresso degli ex atleti nelle facoltà di Scienze motorie. Il sussidio consentirebbe di raddoppiare il numero di atleti aiutati. Frapiccini stima siano 2mila con un costo, per gli stipendi, da 60 a 80 milioni di euro annui. Solo le Fiamme azzurre, la polizia penitenziaria, conta 134 atleti. Nelle carceri, invece, mancano gli agenti.
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