Adozioni internazionali
La “macchina del tempo” dell’adozione
Quando si parla di adozioni, gli adulti adottati non compaiono quasi mai. Come se l'adozione riguardasse solo i bambini e gli adolescenti. Le persone adulte con background adottivo invece hanno molto da dire, anche ai futuri genitori. L'esperienza del gruppo adottati adulti di Avsi, con le voci di Aroti, Giovanni e Francisca
L’essere stati adottati da piccoli è qualcosa che ti accompagna per tutta la vita. Non nel senso che quel vissuto ti determina, non come un’etichetta da portarsi addosso per sempre, ma nel senso che cresce e cambia con te senza andarsene mai. Eppure nel dibattito sulle adozioni, gli adulti adottati non compaiono quasi mai. Parlano prevalentemente gli esperti e i genitori, fatta salvo qualche “testimonianza”. Ma a loro, le persone con background adottivo, se l’etichetta di “adottati adulti” non piace, ancora meno amano quella di “testimoni”: «Il testimone è un terzo che assiste a dei fatti, a volte anche solo perché è capitato lì. Ma io sono quel fatto, io sono protagonista di quel che vivo, non sono lì per caso», dice Aroti. «A me non interessa “avere voce”, non cerco di “avere una voce”, non voglio dire a nessuno come si deve fare, ma penso che la nostra esperienza sia importante», le fa eco Giovanni. «Essere adulti è qualcosa di inesplorato dentro il mondo dell’adozione, i ragionamenti hanno al centro il bambino, il mondo dei grandi non lo si esplora mai… mentre l’adozione riemerge in tantissimi frangenti, anche da adulto», afferma Francisca.
Aroti Bertelli ha 38 anni, è moglie e mamma di un bimbo di 3 anni. Insegna lingue (ne parla cinque), le piace «prendersi cura delle emozioni, delle fatiche e del benessere delle persone» (è trainer emotivo relazionale). Nel 2016 è tornata in India, paese da cui è stata adottata quando aveva 9 anni, e l’ha raccontato in Ritorno alle origini. Storia di un’adozione. Anche Francisca Jimenez Vairo Scaramuzza ha 38 anni e un bimbo piccolo. Lei è stata adottata dalle Filippine appena nata ed è in Italia da quando ha tre mesi. È un’educatrice, ha lavorato a lungo nella tutela minori e ora lavora con donne straniere vittime di tratta: «Incontro spesso mamme e bambini che hanno bisogno di tutto e questo mi fa riflettere su dove sarei io senza l’adozione. Lo stesso quando ero incinta. Dal nulla tornano cose. L’adozione continua per tutta la vita, la porti nel tuo corpo e nella tua storia». Giovanni Berton invece ha 44 anni, gestisce progetti web e digitali, ed è stato adottato dal Perù quando aveva cinque mesi. Dal 2017 si ritrovano insieme ad altri adottati adulti, in un gruppo eterogeneo e informale: persone che non solo si confrontano sui loro vissuti, ma che mettono a disposizione la loro esperienza anche nei percorsi di sensibilizzazione sull’adozione rivolti ai (futuri e neo) genitori adottivi.
«Tutto è iniziato con il documentario Trame. L’intreccio di passato e presente nell’identità dell’adottato all’estero, con alcune persone che hanno deciso, su proposta dell’associazione Amici di don Bosco, di raccontare la loro esperienza. Ne è uscito un video intenso, diretto e delicato», ricorda Elisabetta Gatto, responsabile della formazione adozioni internazionali di Avsi, alias «la fata madrina» del gruppo. L’ensemble è fluido, qualcuno se ne è andato e qualcun altro è entrato, ma nei fatti il filo non si è mai interrotto. «Da un lato abbiamo raccolto le domande e le necessità dei futuri genitori, dall’altro abbiamo lavorato su ciò che loro stessi desideravano raccontare, come un’urgenza. È un lavoro a doppio senso. Non c’è nessuna “verità rivelata”, ma un esplorare da tutti i punti di vista il tema delle relazioni e delle emozioni. Per una coppia che si avvicina all’adozione non è scontato mettere a tema la relazione con la presenza di fratelli o sorelle nella stessa famiglia o con fratelli e sorelle lasciati nella famiglia di origine, né la riflessione su come la ferita abbandonica possa riaffiorare e portare a stare in relazioni tossiche piuttosto che a lasciare continuamente per paura di essere lasciati. È come mettere le famiglie in una “macchina del tempo”, che restituisce la complessità dell’adozione».
Chi mi capisce
Francisca ovviamente sapeva di essere stata adottata, ma nella sua famiglia di adozione non si parlava mai: «Erano gli anni Ottanta, era diverso da oggi. I miei genitori non partecipavano ad associazioni, quindi io da bambina e da ragazza non ho mai parlato con altre persone adottate», dice. «È stato solo verso i 30 anni che mi sono resa conto di aver tralasciato un pezzo importante della mia storia: per la prima volta mi sono incontrata con altre persone adottate, poi ho conosciuto questo gruppo dove se io racconto un’esperienza so di essere capita. Ci sono cose che neanche le mie migliori amiche, quelle che mi conoscono da una vita, capiscono allo stesso modo». Qualcuno – aggiunge Aroti – «con cui non sentirsi sbagliati, perché noi spesso ci sentiamo sbagliati, non abbastanza, sempre in dovere di dimostrare qualcosa». Non è un “nessun altro può capire”, ma la certezza di un sentire comune, di essere capiti fino in fondo perché «di base loro sanno già di cosa sto parlando». E proprio perché da piccola non ha avuto la possibilità di mettere a tema l’adozione, Francisca oggi apprezza particolarmente il fatto di parlare a futuri genitori adottivi e di incontrare – da adulta adottata – dei ragazzini adottati: «per dare spunti di riflessione, non per dire cosa è giusto o sbagliato. Però parlando con genitori e insegnanti noi tiriamo fuori sempre anche i lati più critici dell’adozione, la sua complessità che spesso resta un po’ nascosta, per provare a dare una “cassetta degli attrezzi”».
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«Non mi interessa»: Giovanni aveva 20 anni e rispose così la prima volta che i suoi genitori gli chiesero se voleva tornare in Perù, il paese da cui era stato adottato quando aveva solo cinque mesi. «Non abbiamo tutti la stessa storia né le stesse opinioni, però riusciamo a parlarne, ci confrontiamo in maniera armoniosa. Sono arrivato qui per caso, perché ho letto un articolo. Non sono arrivato perché avessi problemi con il mio passato, bisogni da soddisfare o domande irrisolte… ma forse era arrivato il tempo di farsele quelle domande». Anche oggi, spiega, «non è che io voglia avere voce nel dibattito sulle adozioni, quelli bravi che sanno cosa fare sono altri. La mia voce è la mia esperienza».
Quello che non ti aspetti
Quello che non ti aspetti, per esempio, è che pur essendo italiano pressoché da sempre in tutto e per tutto, anche da adulto devi dimostrare spessissimo di esserlo al 100%. «Mi capita tutti i giorni e mi pesa: in posta, a una visita medica. A me per esempio non chiedono la carta d’identità, ma il permesso di soggiorno. Io ho una famiglia mista, che non è la parola giusta perché noi siamo italiani sposati con italiani, però i miei figli li chiamo blended e loro ci aprono continuamente una porta verso domande a cui non sempre hai voglia di rispondere, anche solo perché sei stanca. Poi ci sono le microaggressioni di quelli che ti dicono, pensando di farti un complimento, “ma come parli bene italiano” o di quelli che mi chiedono del “mio cibo”: ma io mangio polenta!», racconta Aroti. «Con gli anni ho imparato a sdrammatizzare, ma di fondo rimango sempre sorpresa. A volte ho conversazioni bellissime con persone appena conosciute e poi si finisce lì: “è da tanto che sei in Italia?”. Ma perché?». «Il mondo fuori ce lo chiede continuamente, anche quando sono in panetteria: la curiosità, il voler sapere di dove sei… Dobbiamo poter decidere noi come e quando narrarci, a volte hai voglia di farlo e a volte no, agli adolescenti per esempio dobbiamo far capire che non sono obbligati a farlo», conclude Francisca.
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