Welfare

La lunga attesa di Mimi

In fuga dalla guerra in Eritrea, costretto a separarsi da moglie e figlio

di Redazione

Dal lavoro creativo in patria
alle prigioni in Libia, sino alle notti
su una panchina di Milano.
Aspettando Sara e il bambino,
persi per strada nel difficile cammino
verso un futuro miglioredi Nadra Ben Fadhel
Mimi lo adoro perché come me ha fatto della confusione un’arte, della creatività una soluzione. Ha incontrato Sara, sua moglie, nell’infermeria di un ospedale, in Eritrea, il suo Paese. Si era procurato un’ustione di secondo grado sperimentando sul campo, come lo definisce lui, «il giardinaggio e riciclo». Si trattava in sostanza di un passatempo ecosostenibile, di riciclo di materie plastiche, in particolare sacchetti e altri rifiuti difficilmente smaltibili, raccolti con lo scopo non secondario di ripulire le aree verdi della sua città. E qui sta il genio: Mimi è riuscito a forgiare gli sgabelli per un’intera classe elementare, miglioria dopo miglioria, mese dopo mese, bruciatura dopo bruciatura, dando il via inconsapevolmente ad un progetto educativo senza pari. Quando ricorda il primo incontro con Sara, sembra rapito da una visione. «Sono un uomo, e la mia soglia di tolleranza del dolore è praticamente inesistente? l’amico che mi ha accompagnato in infermeria ha detto che tenevo la testa rivolta all’indietro il più possibile per non vedere la mano, i denti così stretti che ancora un po’ li frantumavo e che emettevo una specie di sibilo agonizzante. Poi l’ho vista, e sono guarito. Te lo giuro, mi è bastato guardarla, così alta e sicura, e fiera, e gentile, e sorrideva, a me. Poi per un anno e mezzo sono stato di nuovo malato, d’amore…». Sara ha tre anni in più di Mimi, quindi Mimi ha sempre fatto il massimo per sembrarle abbastanza maturo e sempre all’altezza di ogni situazione. Come quando ha deciso che dovevano partire.
Io e Mimi ci diamo il solito appuntamento in piazza Oberdan, davanti al cinema. Caffè di rito, poi gli chiedo se ci sono novità. Mi costa molto fargli questa domanda, mi mette a confronto con la mia inadeguatezza. Cerco il tono giusto, serio ma non privo di leggerezza, come a suggerire una speranza, una via d’uscita. Apprezza il mio sforzo, lo vedo dal lungo respiro che gli cambia lo sguardo. Sono passati più di cinque mesi da quando sono scappati dal loro Paese, l’Eritrea, per via della guerra e sono tre mesi che non ha più notizie precise di Sara e di suo figlio. Arrivati in Libia pensavano di avercela fatta, ma invece del campo rifugiati sono stati arrestati e spediti fra le atrocità della prigione di Cufra, dove se non hai soldi per pagare i poliziotti sei spacciato e se sei una donna ti violentano. Mimi ha ricevuto dagli amici un vaglia per pagare la libertà della sua famiglia, ma arrivati a Tripoli Sara è stata nuovamente fermata dalla polizia e portata via, senza che Mimi potesse fare nulla. Adesso lui è a Milano, e prova spesso un senso di colpa terribile per avercela fatta. Aspetta solo di iniziare una nuova vita, così quando avrà un lavoro riuscirà a portarla qui. Intanto si fa sera e piazza Oberdan si popola di molte altre storie simili a quelle di Mimi. Da due mesi circa, cento rifugiati politici tra eritrei, etiopi, somali e sudanesi dormono nella bella piazza, dimenticati da tutti. Sono rifugiati politici, non criminali, ce l’hanno anche scritto sui documenti, eppure quasi tutte le notti un camion della nettezza urbana passa anche tre o quattro volte per spazzarli via. Mentre mi allontano penso: «Adesso che sono in Italia, ce l’avranno davvero fatta?».

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