Mondo
La lotta contro la povertà passa per la raccolta dati
Con la raccolta dei dati, la cooperazione internazionale ha fatto passi da gigante negli ultimi anni. Grazie alle informazioni raccolte, i donatori hanno migliorato le attività di monitoraggio e valutazione dei loro programmi e progetti di sviluppo, salvando molte vite umane. Ma la strada è ancora lunga. Alle Giornate europee per lo sviluppo che si tengono a Bruxelles, alcuni esperti spiegano il perché.
Bruxelles – “In termini di informazioni sui paesi in via di sviluppo oggi sappiamo molto più di 15 anni fa: sappiamo come individuare target, sappiamo cosa funziona e cosa non funziona, dove stanziare le risorse, possiamo essere ancora più ambiziosi. Quindici anni fa avevamo solo dei sogni”. A parlare è Melinda Gates, cofondatrice della Fondazione privata più grande nel mondo della cooperazione, ospite agli European development days a Bruxelles. Quindici anni fa mancavano informazioni preziose ai decision maker che hanno definito gli obiettivi del millennio: sono i dati che oggi possiamo raccogliere e utilizzare per imparare dagli errori e per potenziare le attività di monitoraggio e valutazione dei progetti.
L’uso dei dati nella cooperazione è stato al centro di un evento partecipatissimo alle Giornate europee per lo sviluppo (EDD15), di cui Vita è media partner. Per Sabine Bernabé, senior economist alla European Investment Bank (EIB), i dati hanno cambiato la struttura della sua organizzazione. Non solo nel processo di raccolta delle informazioni e nel monitoraggio dei progetti, ma per indirizzare le politiche di intervento: “abbiamo incluso il fallimento nel processo organizzativo”, spiega.
Certo, ci sono dei limiti: perché l’uso puro di dati che ci dice se sono state costruite più scuole o creati più posti di lavoro non dà indicazioni dell’impatto di un progetto. “Per capire se dare 100 posti di lavoro è meglio che far risparmiare 100mila euro di tasse, servono altre misure”, sottolinea Bernabé.
Un approccio, almeno quelle delle intenzioni, che sembra essere assente alla Commissione europea, dove i dati vengono usati “per monitorare i progetti, ma non per pensare nuovi interventi e valutare i bisogni”, denuncia un consulente di diverse istituzioni europee presente al panel.
“Dobbiamo migliorare la raccolta di dati, ammette il Commissario europeo per la cooperazione internazionale e lo sviluppo, Neven Mimica, “ci faremo aiutare dal Regno Unito che ha un sistema avanzato”. Lo stesso segretario delle Nazioni Unite, Ban ki Moon, ha chiesto maggior impegno nella valutazione dell’impatto dei progetti e ha avviato una consultazione pubblica per definire un nuova strategia di sviluppo sostenibile basata sui dati.
“Vogliamo eliminare la povertà estrema ma non sappiamo esattamente quante persone vivono in questa condizione”, fa notare David McNair, direttore della Trasparenza per l’organizzazione non governativa ONE campaign. “Si parla di 440 milioni solo nell’Africa subsahariana, dati che sono stati calcolati nel 2005: nel mondo sono un miliardo le persone che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno, ma 350 milioni potrebbero mancare dal conteggio”.
Ma per chi lavora nella definizione di policy, il problema non è soltanto statistico. L’aumento di dati disponibili migliora davvero le condizioni di vita delle persone: ci sono connessioni tra maggiori dati e maggiore sviluppo, “perché un bambino registrato all’anagrafe avrà più opportunità di veder rispettati i suoi diritti rispetto a un bambino non registrato”, spiega McNair.
Un passo in avanti è quello di rendere i dati sullo sviluppo conformi a standard internazionali per facilitare la consultazione: citando l’International Aid Transparency Initiative, per McNair gli open data servono non solo in termini di accountability e trasparenza, ma per migliorare il lavoro stesso delle ong, che possono confrontare i dati per sapere chi sta facendo cosa e in quale paese. Per non ripetere gli stessi progetti, ma soprattutto gli stessi errori.
La tecnologia che può aiutarci ad aumentare la disponibilità di dati è già qui, ricorda McNair. Servono più investimenti per portare la “data revolution” al servizio dei prossimi obiettivi di sviluppo. D’altronde, è l’Onu che ce lo chiede.
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