Politica
La lotta alla povertà si fa anche con un sistema fiscale più equo
Lotta alla povertà e inversione del ritmo di crescita delle diseguaglianze, non possono più essere trattati in maniera disgiunta, non solo perché sono le due facce della medaglia di un modello economico che appare sempre più perverso e distorsivo. Il Terzo Settore Italiano e in termini più ampi con le organizzazioni sociali europee promuovano una campagna per una maggior equità fiscale
Ho letto e condivido pienamente il bell’intervento su queste pagine di Giampaolo Gualccini in merito alla necessità di cambiare approccio nella lotta alla povertà. L’urgenza di questo cambiamento appare ancora più evidente se leggiamo l’interessante articolo, pubblicato su Il Correre della sera dello scorso 2 gennaio, a firma di Michele Farina che mette in evidenza come, anche durante la pandemia, i grandi ricchi della terra abbiano continuato ad accrescere la loro ricchezza patrimoniale, incrementando in maniera spropositata il livello delle diseguaglianze.
Questi due temi: lotta alla povertà e inversione del ritmo di crescita delle diseguaglianze, non possono più essere trattati in maniera disgiunta, non solo perché sono le due facce della medaglia di un modello economico che appare sempre più perverso e distorsivo, ma anche perché appare evidente che nessun programma di riduzione della povertà, sia a livello di politiche regionali e nazionali, sia a livello di cooperazione internazionale appare impotente nel colmare una divaricazione violenta e smisurata.
Era emerso già anche durante la crisi finanziaria del 2008, in quella dell’Euro del 2011 e ora confermato dalla crisi pandemica, che di fronte agli stravolgimenti che determinano tracolli economici e finanziari a farne le spese siano prevalentemente le fasce più povere delle popolazioni mondiali, mentre i vertici delle classifiche mondiali della ricchezza, non solo non vengono colpiti, ma addirittura paradossalmente ne traggono vantaggio. Mentre i costi altissimi ricadono anche sulle classi medie. Appare infatti evidente quanto alto sia il prezzo pagato da piccoli imprenditori, commercianti, artigiani operatori della cultura…ma anche in questo caso con divaricazioni che aumentano il divario tra “super star” e il resto del mondo. Nelle queste fasce di mezzo chi non riesce a resistere precipita nella povertà.
Per questo appare forviante l’analisi di chi ad esempio attribuisce alla “pandemia” la causa di questo ulteriore incremento delle diseguaglianze, come per certi versi rischia di fare il citato articolo del Corriere della Sera quando scrive nel sottotitolo “I 500 nababbi del Bloomberg Index hanno visto il loro patrimonio crescere di 1.800 miliardi durante la pandemia” quasi che, con un atteggiamento di rassegnato determinismo fatalista, fossero le crisi in se, o il virus, a far crescere la diseguaglianza. Non sono infatti né le crisi né la pandemia l’agente che provoca le diseguaglianze ma il modello economico che continuiamo considerare vincente, fondato su un idea di liberismo sfrenato, sulla competizione esasperata, sulla completa licenza di movimento dei capitali e sulla celebrazione del profitto come fine e non come mezzo per perseguire il progresso. Questo modello che sostanzialmente si basa su forti deregolamentazioni e su una feroce competizione fiscale tra Paesi, anche all’interno stesse di aree di mercato comune, come nel caso dell’Europa che persegue un ideale di mercato unico e di democrazia economica, ma tollera la permanenza al suo interno di veri e propri paradisi fiscali, che consentono alle aziende multinazionali più forti di scegliere il regime fiscale più vantaggioso, beneficiando però del mercato unico. Fanno cioè affari in tutta Europa ma pagano le tasse dove è più conveniente. Il prezzo di questi sconti fiscali poi viene pagato dai lavoratori e dalle piccole imprese degli altri Paesi.
La questione dell’equità fiscale quindi non si può quindi rinviare e non possiamo attribuire solo a cause straordinarie (la pandemia) l’origine della povertà o quello della crescita delle diseguaglianza. Per questo alla giusta rivendicazione di Giampaolo Gualaccini, circa la necessità di sostenere che aiuta, o di riconoscere l’imprescindibile ruolo del Terzo Settore, come ha fatto il 6 gennaio lo stesso Silvio Berlusconi.
Occorre che anche il terzo settore si faccia carico di una campagna convinta e decisa per ripristinare un adeguato livello di equità fiscale, che sappiamo non si gioca più ormai solo a livello nazionale, a deve diventare una campagna internazionale a cominciare dalla dimensione europea. Altrimenti il rischio è che, come ha ricordato con estrema chiarezza Papa Francesco, il terzo settore sia un “palliativo” che interviene a curare ma che non riesce ad incidere sul cambiamento di un modello di sviluppo che continua a spengere verso la concentrazione della ricchezza.
Per convertire questa deriva occorre agire prima di tutto ripristinando una vera e sostanziale progressività del sistema di imposte fiscali, cambiare le regole sulla circolazione dei capitali aumentando il livello di trasparenza per favorire, insieme alla libera circolazione anche un imperativo etico di trasparenza e responsabilità. Serve introdurre anche una tassazione sui grandi patrimoni e sulle successioni di questi grandi patrimoni, come del resto proponeva già qualche mese fa Enzo Manes proprio su Vita.
Occorre infine sbugiardare la narrativa che dagli anni ’80 viene ripetuta per giustificare la continua riduzione dei carichi fiscali sui patrimoni e i redditi più elevati, alimentando la falsa credenza che meno tasse sulla ricchezza avrebbero favorito una crescita maggiore che quindi si sarebbe tradotta in un benessere diffuso. I dati dicono esattamente il contrario, basti pensare che tra la fine della seconda guerra mondiale e il 1980, quando nei paesi occidentali si è osservato il più duraturo e ampio periodo di crescita economica e di emersione dalla povertà di ampi settori delle popolazione nei paesi occidentali, i due Paesi indicati come trainanti e come culle della democrazia, del progresso economico e del mercato libero: USA e UK applicavano una aliquota fiscale rispettivamente del 81% e del 86% sulle grandi ricchezze. Questo dato da solo dimostra che non sempre e non automaticamente la tassazione delle grandi ricchezze ostacola la crescita economica, ma anzi analizzando i dati sembrerebbe vero il contrario.
Credo che sia davvero il momento di ribadire con forza “se non ora quanto” e farci carico nel Terzo Settore Italiano e in termini più ampi con le organizzazioni sociali europee per avviare una campagna per una maggior equità fiscale, che non può che arrivare da nuove regole sul funzionamento dei mercati. Prepariamoci quindi a portare la visione del Terzo Settore italiano nelle sedi delle istituzioni europee, cavalcando anche l’annunciato Piano d’azione per l’Economia Sociale, per ribadire che non esiste nessun “pilastro europeo dei diritti sociali”, se non ci sarà anche un pilastro fiscale europeo coerente ed equo.
*Presidente di CECOP-CICOPA Europe
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