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La Libia? Ormai è un buco nero per noi umanitari

«Ci sono aree del Paese irraggiungibili, da dove ci arrivano segnali molto preoccupanti». Gli sbarchi? «Oltre a chi si mette in mare, ci sono migliaia di persone fra rifugiati e sfollati interni per cui la situazione è drammatica». Intervista a Dunnapar Fern Tilakamonkul, responsabile per le relazioni esterne dell'Unhcr in Libia

di Giacomo Zandonini

È una delle poche organizzazioni internazionali a operare ancora nel Paese, pur avendo spostato gran parte del personale in Tunisia e Egitto. Anche per l'Alto Commissariato per i Rifugiati, però, lavorare in Libia è sempre più difficile. Lo ha raccontato a Vita.it Dunnapar Fern Tilakamonkul, responsabile per le relazioni esterne dell'agenzia Onu nella repubblica araba.

L'intervento umanitario sul campo è sempre più difficile, tanto che diverse organizzazioni hanno lasciato la Libia. A cosa è dovuto?
Oggi il problema principale, per agenzie come UNHCR, è l'accesso al territorio. Nelle aree colpite dagli scontri come Derna, Bengasi e Awbari, per esempio, le organizzazioni della società civile e le comunità locali ci segnalano situazioni di estremo bisogno. Ma la mancanza di sicurezza rende impossibile il passaggio dei convogli umanitari. Stiamo lavorando con le autorità di città e villaggi che controllano il territorio, ottenere garanzie di sicurezza è però molto difficile.

Si parla molto di chi si imbarca verso l’Italia, ma che situazione vivono i richiedenti asilo, gli stranieri presenti nel Paese e le migliaia di sfollati interni?
La situazione umanitaria della Libia è drammatica. A preoccuparci, in primo luogo, è il benessere di 14mila dei 37mila rifugiati e richiedenti asilo registrati nel Paese: persone disperse in zone di guerra, senza quasi nulla. Una precarietà che cresce parallelamente all'intensificarsi degli scontri. Molti, sia libici che stranieri, sono bloccati in zone distrutte dai combattimenti e non riescono a raggiungere territori più sicuri. Spesso non sono in grado di pagare l'affitto, anche perchè non hanno più accesso alle banche, e hanno paura di uscire di casa. Gli sfollati interni, poi, sono distribuiti in 35 città e villaggi e hanno bisogno urgente di avere un tetto, di cure mediche, cibo e acqua.

Cosa fa Unhcr per queste persone?
Negli ultimi sette mesi abbiamo distribuito aiuti a 28mila persone in diverse città della Tripolitania. Fra di loro ci sono molti membri della communità di Tawergha (i "libici neri", minoranza berbera associata alle milizie gheddafiane, ndr), che sono sfollati dal 2011. A gennaio nelle città di Ghat, Lawenat e Tahala, nel sud del Paese, siamo riusciti a consegnare materassi, lenzuola di plastica e set per cucinare a 150 famiglie. A febbraio invece abbiamo inviato attrezzature mediche e farmaci destinati al trattamento di circa 20mila persone nell'ospedale di Bengasi.

Nell'ottobre 2014, dopo scontri violentissimi a Bengasi e Tripoli, le Nazioni Unite hanno lanciato un appello per raccogliere fondi, che fino a oggi è stato inascoltato. La comunità internazionale è disattenta?
La situazione umanitaria in Libia è stata trascurata, dai mezzi di comunicazione come dai donatori internazionali. Certo, la Libia è ricca di risorse prime, ma questo non riduce i bisogni della popolazione, che anzi continueranno a crescere. Supportare migranti e sfollati deve diventare una priorità.

Qual è la situazione ai confini del Paese? Le partenze via mare sono aumentate, quelle via terra?
Dovrebbero essere i Paesi vicini a monitorare l'attraversamento dei confini, siano essi marini o terrestri. Unhcr lavora con i governi di questi paesi per comprendere meglio ciò che sta succedendo.

 

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