Cultura

La libertà è compatibile con l’accelerazione?

In questi giorni in cui si ritorna a parlare in maniera scomposta e inconcludente della presenza del Crocefisso nei luoghi pubblici, è molto importante chiedersi quale sia la relazione esistente tra l’insegnamento del Vangelo e la nostra quotidianità più immediata. Ma siamo ancora capaci di interrogarci sul senso della libertà? O l'accelerazione - anche nelle polemiche accese e subito dimenticate - ha eroso ogni senso critico?

di Pietro Piro

Vangelo e quotidianità

In questi giorni in cui si ritorna a parlare in maniera scomposta e inconcludente della presenza del Crocefisso nei luoghi pubblici, credo sia molto importante chiedersi quale sia la relazione esistente tra l’insegnamento del Vangelo e la nostra quotidianità più immediata.

Ancora più in profondità, credo sia urgente sapere sé c’è ancora un piccolo spazio nei nostri cuori affaticati dall’accelerazione, dalle difficoltà nel sopravvivere, dalla nevrosi dell’efficienza.

Trovare questo spazio è sempre più difficile. Siamo appiattiti sul presente, schiacciati dalla marea incessante di segni prodotti dall’apparato tecnologico. Segni caleidoscopici, velocissimi, ridondanti, che aumentano il nostro senso d’impotenza.

Recentemente, ho letto il libro dello psicanalista argentino Miguel Benasayang, Funzionare o esistere? Un libro importante che ci vuole fare riflettere sulla gabbia che abbiamo costruito attorno – e dentro – le nostre vite: «Ciascuno di noi è chiamato a diventare l’imprenditore della propria vita: autonomo, performante, dinamico, e, non dimentichiamolo….felice! Infatti, nelle nostre società ‘ugualitarie’, tutti possono tutto – anche sé per la verità solo sulla carta…Se state male, siete disoccupati, malati, deboli, non avete che da prendervela con voi stessi, è colpa vostra. Tristezza e debolezza sono diventati veri e propri difetti, ‘segni’ del fatto che amministriamo male la nostra ‘impresa’ (leggi: la nostra povera persona). Il mondo si divide in winners (responsabili, performanti) e in losers, la cui incapacità di gestione determina il fallimento della loro impresa personale» (M. Benasayag, Funzionare o esistere? Vita e Pensiero, Milano 2019, p. 17).

Quanta violenza in questo tentativo di far funzionare l’uomo perfettamente, senza sbavature, senza ripensamenti, senza dubbi. Eppure, questa violenza ci riguarda tutti.

Sé vogliamo comprendere la condizione dell’uomo di oggi, non possiamo prescindere dal fatto che l’uomo si vergogna sempre di più di non essere all’altezza di modelli di funzionamento che lo fanno sprofondare nell’angoscia e nel panico.

Modelli che non hanno nulla a che vedere con quelli proposti dal Vangelo.

Anzi, vorrei far riflettere sul fatto che sé si prende il Vangelo come punto di riferimento, questi modelli narcisistici e performativi, appaiono ancora più assurdi e insensati, come se fossero stati prodotti da qualcuno che abbia così ragionato: “bene, adesso prendiamo l’esempio del Vangelo e lo capovolgiamo completamente”.

Questo “ribaltamento” non poteva che causare enormi ferite nella sensibilità profonda dell’uomo. Sensibilità che non parla con la parola ordinaria ma attraverso il sogno, il simbolo, la profezia, il tragico.

Oggi molti di noi soffrono in silenzio un dolore sordo e soffocato, che spesso si traduce in malattia, in disagio profondo, in senso d’inadeguatezza. Da dove viene questa sofferenza?

Credo di poter dire che venga direttamente dalla nostra incapacità di mettere al centro della nostra vita i valori di cui il Vangelo è portatore: la fraternità, la compassione, la tenerezza, l’accoglienza, il perdono.

La tentazione

La tesi dunque che porto alla vostra attenzione è molto semplice: per assurdo, potremmo anche fare a meno del Vangelo, delle lettere di cui è composto, dimenticarlo, fare finta che non sia mai stato annunciato ma non possiamo fare a meno dei valori che esso ci vuole trasmettere.

Il rischio è di ammalarci sempre di più, di diventare una società sterile, totalmente meccanizzata. A mio avviso, gli effetti concreti di questa mancanza di risposte alla chiamata del Vangelo è già sotto gli occhi di tutti. Le parole di Karl Barth valgono ancora per noi: «Questo tempo comporta una forte tentazione, che si manifesta in tutti i modi possibili: quella di non comprendere più che la parola di Dio supera, con la propria intensità ed esclusività assoluta, la forza di ogni altra pretesa, e quindi la tentazione di non comprendere più questa Parola come tale. È la tentazione di non confidare più del tutto nella forza della Parola di Dio, in quanto presi dall’angoscia di pericoli di ogni genere, e di pensare invece che sia necessario venirle in aiuto con ogni sorta di interventi, gettando via in tal modo la certezza della sua vittoria. [….] Si tratta della tentazione di dividere il nostro cuore tra la Parola di Dio e ogni sorta di altra realtà» (K. Barth, Esistenza teologica oggi! Claudiana, Torino 2015, p. 35).

Queste parole furono scritte in tempi atroci, dove il pericolo della vita era palpabile. Dove il rischio della scelta era visibile. Oggi che viviamo in tempi di Pace perché continuiamo a percepirci in pieno pericolo? Perché siamo arrivati a definirci una società del rischio?

Di fronte al pericolo, all’incertezza del domani, alla paura della catastrofe, ci arriva dal Vangelo la più importante delle indicazioni:

Nessuno può servire a due padroni: o odierà l'uno e amerà l'altro, o preferirà l'uno e disprezzerà l'altro: non potete servire a Dio e a mammona.

Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un'ora sola alla sua vita? E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora se Dio veste così l'erba del campo, che oggi c'è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena. (Matteo 6, 24-33).

Quante volte abbiamo sentito questo passaggio? Forse migliaia. Eppure, resta sempre il più disatteso dei consigli di Gesù.

Questo discorso mette in crisi tutta la nostra società della performance e del profitto. È allo stesso tempo una critica al lavoro e alla sua idolatria, un invito a una profonda visione ecologica e un incitamento alla fiducia in un Dio vicino e premuroso.

Preso “alla lettera”, questo passo ci restituisce freschezza e spensieratezza, gioia di vivere e voglia di guardare al presente con fiducia.

Non potete servire a Dio e a mammona» (Mt 6, 23-24). È impossibile non meravigliarsi considerando come il cristianesimo di ogni confessione e di ogni tendenza abbia preso alla leggera queste parole, mentre ha affrontato spesso con grande zelo, rigore e precisione questioni dogmatiche che non hanno alcun significato per la vita di Gesù

Karl Barth, Poveri Diavoli. Cristianesimo e socialismo

Cristo lavoratore?

Nella Laborem Exercens, Lettera Enciclica del 14 settembre 1981, Giovanni Paolo II non può fare altro che riconoscere che: «Nelle sue parole (nelle parole di Gesù) non troviamo uno speciale comando di lavorare – piuttosto, una volta, il divieto di un’eccessiva preoccupazione per il lavoro e l’esistenza» (Giovanni Paolo II, Laborem Exercens, 26. Cristo, l'uomo del lavoro).

Sono pienamente d’accordo sul fatto che: «l’eloquenza della vita di Cristo è inequivoca: egli appartiene al «mondo del lavoro», ha per il lavoro umano riconoscimento e rispetto».

Tuttavia, è forse questo suo grande rispetto e conoscenza diretta del lavoro che gli permette di riconoscere che occorre cercare il Regno di Dio con una dedizione e una volontà totale, altrimenti, si rischia di essere risucchiati nel ciclo paura-lavoro-ambizione-inquietudine.

Se Gesù è stato per tanti anni un umile lavoratore – e non abbiamo nessuna ragione per dubitarne – quando decide di annunciare il Vangelo, sceglie d’interrompere definitivamente il suo lavoro.

Se facciamo attenzione alle volte in cui Gesù utilizza metafore tratte dal mondo del lavoro, non vi è mai un’esaltazione del lavoro in sé. Accade sempre qualcosa che “interrompe il lavoro” o né “scombina le leggi”.

Qualcosa che rende la quotidianità uno sfondo opaco. Con la sua predicazione e i suoi miracoli Gesù spalanca le porte all’antiquotidiano, al meraviglioso, all’incomprensibile. Il suo invito a lasciare tutto per seguirlo è strettamente legato allo stile nomadico che agita la sua coscienza. Padre Alberto Maggi ha detto in un’omelia: «Gesù per seguirlo non chiede di lasciare tutto, ma di lasciare soltanto quello che impedisce la piena libertà dell’uomo. Se è la casa – casa significa il patrimonio familiare -, se sono i fratelli, se sono le sorelle, o il padre o la madre … quindi se c’è uno di questi impedimenti, lascialo, abbandonalo, perché ti impedisce la pienezza di vita».
Mi sembra un buon indizio iniziale. Credo però che Gesù descriva un percorso iniziatico diviso in “tappe” o “momenti”.

Nel primo momento si vende tutto quello che si ha e si da ai poveri. Non metaforicamente ma realmente. Si tratta di un primo passaggio durissimo. Un passaggio che solo pochi sono in grado di fare realmente. Occorre farsi nudi, deporre i fardelli.

Personalmente mi sono trovato in alcuni momenti della vita in cui sono stato costretto “a perdere tutto” quello che avevo accumulato.

Ho provato una grande sofferenza fisica. Un senso di lacerazione, una perdita feroce di memoria e identità. Ma anche – e questo mi pare oggi incredibile – un senso profondo di libertà e di leggerezza.

Viaggiatori leggeri

Vendere tutto e donarlo ai poveri basta di per sé? Direi proprio di no. Gesù ci invita ad andare oltre, a recidere gli attaccamenti che ci impediscono di camminare dritti verso il Padre.

Se non camminiamo leggerissimi su questa terra (né bastone, né bisaccia, né pane, né denaro, né due tuniche – Luca 9, 13 ) rischiamo di non arrivare a destinazione. Rischiamo di perderci nei mille pensieri dell’oggi e nell’ancora più tormentose preoccupazioni del domani.

L’essere povero, rinunciante, nomade e miracoloso, rende Gesù un pericolo mortale per ogni forma di potere. Questa sua maniera di vivere destituisce il potere al suo fondamento. Questa radicalità nomadica e ispirata credo sia veramente difficile da conciliare con il nostro modo di vivere oggi.

Incuranti delle parole di Gesù non facciamo altro che appesantirci. Per proteggerci dalle nostre paure profonde ci circondiamo di alte mura invalicabili dentro le quali restiamo imprigionati.

Oggi siamo schiavi oltre che di una forma di consumismo ossessivo anche di una mentalità efficientista e performativa che ci allontana dalla fiduciosa relazione con un Dio generoso e vicino.

Finché non cominceremo a vivere con maggiore fiducia nelle promesse del Vangelo, resterà lettera morta nei nostri cuori e non sapremo proprio che farcene nei tempi che verranno.

Termino queste brevi riflessioni con una frase di San Giovanni Calabria che credo sia attualissima: «Di fronte a un mondo impastato di materia, di interessi volgari, di egoismo, bisogna erigere una generazione di "uomini dello spirito" al cento per cento, i quali, non a chiacchere, ma a fatti dimostrino che la realtà che tutto sovrasta non è illusoria materia, ma lo spirito: spirito creatore in Dio, spirito dominatore dell'anima nostra, spirito di fede nella divina Divina Provvidenza che ci svincoli dalla servitù delle preoccupazioni materiali e ci faccia signori degli eventi» (Ora decisiva. Apostolica vivendi forma, Scuola tipografica Vescovile, Casa Buoni Fanciulli, Verona 1945, p. 9).

Signori degli eventi, non schiavi del tempo salariato, della paranoia produttivista, del freddo pagamento in contanti.

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