Cultura

La lezione di San Suu Kyibprimo non odiare

Anteprima Esce in Italia il libro intervista alla leader birmana di Alan Clements

di Redazione

Il suo primo arresto risale al 1989. Da allora è stata privata della libertà, ma lei dice: «Non mi hanno piegato perché non li odio. Se li avessi odiati avrei sconfitto me stessa» P er gentile concessione dell’autore e dell’editore, anticipiamo due pagine da La mia Birmania , Aung San Suu Kyi in conversazione con Alan Clements in uscita il 24 ottobre nelle librerie italiane (edizioni Corbaccio, pp 370, euro 18). Si tratta della raccolta delle conversazioni che Alan Clements ebbe con San Suu Kyi dall’ottobre 1995 al giugno 1996, nella sua casa di Rangoon. Il libro esce proprio nel giorno in cui San Suu Kyi entra nel tredicesimo anno di detenzione. Il suo primo arresto risale al luglio 1989. Da allora, il premio Nobel per la pace, ha passato la sua vita tra carcere e arresti domiciliari.

Alan Clements: Lei è stata alla mercè fisica delle autorità fin da quando ha abbracciato la lotta per la democrazia del suo popolo. Il potere è mai riuscita a imprigionarla dentro, emotivamente o mentalmente?
Aung San Suu Kyi: No, e penso che sia per il fatto che non ho mai imparato ad odiarli. Se lo avessi fatto sarei davvero in loro balìa. Ha mai letto il romanzo Middlemarch di George Eliot? C’era un personaggio, il dottor Lydgate, il cui matrimonio si era rivelato una delusione. Ricordo in particolare un’osservazione su di lui in cui si diceva che quello che temeva più d’ogni altra cosa era di non riuscire più ad amare sua moglie, perché per lui era stata una delusione. La prima volta che lo lessi rimasi alquanto perplessa. Questo dimostra come fossi immatura all’epoca. Mi dicevo: ma non dovrebbe piuttosto temere che sia lei a non amarlo più? Ora invece capisco il suo sentimento. Se avesse smesso di amare la moglie sarebbe stato completamente sconfitto. Tutta la sua vita sarebbe stata una delusione. Io ho sempre pensato che se avessi cominciato ad odiare i miei carcerieri, il partito al governo, l’esercito, avrei sconfitto me stessa. Questo spiega anche il perché non sono paralizzata dalla paura. Se davvero fossi impaurita avrei fatto i bagagli e sarei partita, perché loro non mi avevano mai negato il permesso di andarmene. La gente mi chiede perché non li tema. Penso che sia perché non li odio, non si può avere paura di chi non odi. Odio e paura vanno a braccetto.
Clements: San Suu, qui nel suo Paese dire la verità è ritenuto un crimine contro lo Stato se tale verità è inaccettabile per le autorità. Ma perché la “verità” è una minaccia così pericolosa?
San Suu Kyi: Perché il potere della verità è davvero immenso. E questo spaventa certe persone. La verità è un’arma formidabile. La gente può non crederci, ma è così. E la verità, come qualsiasi cosa potente, può intimorire o confortare, a seconda della parte in cui ti trovi. Se sei dalla parte della verità, è molto confortante, ti offre la sua protezione. Ma se stai dalla parte della menzogna, allora mette paura.
Clements: Che cosa significa in sostanza per lei la verità?
San Suu Kyi: Alla fine la verità non può essere separata dall’onestà e dalla buona volontà. Non posso dire di essere in grado di vedere la verità in ogni situazione. Ma ciascuno fa del proprio per essere sincero nel valutare la situazione, distinguendo onestamente tra ciò che è giusto e ciò che non lo è. Così facendo, sei dalla parte della verità. Ma la verità è un concetto molto ampio. La pura verità – la verità assoluta – va al di là dei comuni mortali come noi, perché non siamo in grado di vedere le cose in maniera assoluta nel loro insieme. Ma cerchiamo di fare del nostro meglio. Penso che tutti siamo dalla parte della verità, tendiamo verso essa piuttosto che esserne in possesso. La verità è un anelito verso il quale tendiamo incessantemente.
Clements: Bisogna imparare l’arte di relazionarsi obiettivamente con la nostra soggettività?
San Suu Kyi: La ricerca della verità deve essere accompagnata dalla consapevolezza. E la consapevolezza è strettamente legata all’obiettività. Se sei consapevole di quello che fai, hai una percezione obiettiva di te stesso. E se sei consapevole di ciò che fanno gli altri, diventi più obiettivo anche nei loro confronti. Per esempio, consapevolezza significa che quando ti rendi conto che qualcuno sta gridando, non pensi: «Che persona orribile». Questa è una valutazione puramente soggettiva. Ma se sei consapevole sai che sta gridando perché è arrabbiato oppure ha paura. Questa è obiettività. Altrimenti, senza consapevolezza, i pregiudizi di ogni tipo si moltiplicano.
Clements: Se non sbaglio fu Carl Jung a dire che avrebbe preferito «diventare completo piuttosto che buono». Che cosa significa per lei la ricerca della “completezza”? La ritiene importante?
San Suu Kyi: Prima di tutto, bisogna scoprire che cosa significa “buono”. Quando Jung diceva che preferiva «diventare completo piuttosto che buono», che cosa intendeva per “buono”? Allo stesso modo, quando uno desidera diventare puro, bisogna prima scoprire che cosa comprende per lui il concetto di purezza. È un concetto molto ampio, come la verità. E qualcosa verso cui si anela incessantemente. Se qualcuno afferma «Ho raggiunto la purezza», è probabile che in realtà non sia tanto puro. Dubito che una persona non arahant (illuminata, ndr ) possa dire seriamente «Non c’è impurità in me». Ma penso anche che, se sei alla ricerca della purezza, devi sapere che cosa significa essere impuri. Per le persone cresciute nel buddismo non credo sia troppo difficile, perché abbiamo i nostri concetti di avidità, odio e ignoranza che creano impurità. Pertanto, tutto ciò che è riconducibile alla cattiva volontà e all’avidità è impuro. Il problema nasce con tutto quello che è riconducibile all’ignoranza. Come fai a sapere di essere ignorante se sei ignorante?

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