Adozioni internazionali
La lezione di Manila: per rilanciare le adozioni dobbiamo accompagnare le famiglie
Trecento esperti e le autorità centrali di 14 Paesi (ma non dell'Italia) hanno partecipato a Manila ad una tre giorni che ha messo a tema la preparazione delle famiglie adottive e il loro accompagnamento nel post adozione. È questo "il" nodo delle adozioni oggi. Mentre qui da noi invece per rilanciare le adozioni continuiamo a dire che basta snellire le procedure...
Tra il 10 e il 12 ottobre si è tenuta a Manila la 17esima Global Consultation on Child Welfare Services, un incontro proposto dal National Authority for Child Care (Autorità Centrale Adozioni per le Filippine), con lo scopo di condividere buone prassi e, più in generale, allargare lo sguardo su un osservatorio mondiale in materia di adozioni internazionali. Erano presenti 303 partecipanti in rappresentanza di Autorità Centrali, Enti Autorizzati e istituti di accoglienza di minori, provenienti da Francia, Spagna, Regno Unito, Belgio, Svizzera, Germania, Finlandia, Svezia, Olanda, USA, Canada, Nuova Zelanda, Australia e Danimarca.
Davanti a questi numeri e nell’immaginare l’investimento organizzativo necessario, viene naturale domandarsi quale sarà stato lo scopo di questo incontro che ha visto coinvolti specialisti dell’adozione di quattro continenti. Il focus ricorrente in tutti gli interventi è stato relativo alla preparazione delle aspiranti famiglie adottive, in particolare per quanto concerne il post adozione.
L’interrogativo a questo punto si sposta sulla ragione per cui, mentre in Italia i temi quasi esclusivi sul mondo delle adozioni sono lo snellimento, il rilancio e la semplificazione delle procedure, nel resto del mondo l’attenzione si sposta su come rispondere al bisogno di bambini che in questi anni sono cambiati sensibilmente. È difatti uniformemente riconosciuto come i bambini che oggi hanno bisogno di una famiglia hanno storie e vissuti profondamente diversi dai cosiddetti “anni d’oro” delle adozioni.
Da questi tre giorni è emerso come in tutto il mondo ci sia una presa di consapevolezza di come questo oggi sia esattamente “il” nodo centrale del tema adottivo. L’adozione non è in crisi in quanto tale, semplicemente è qualcosa di diverso da come la si è conosciuta per decenni, in un costante processo di trasformazione. Quel lavoro che si concludeva con la soddisfazione di un bisogno, spesso circoscritto all’identificazione di una famiglia che potesse accogliere un bambino, oggi è altro, in uno scenario in profonda e continua evoluzione. Noi operatori siamo passati dal focalizzarci sugli aspetti più strettamente procedurali dell’iter, ad una centralità del percorso di accompagnamento e cura della famiglia, spostando l’attenzione sul ruolo nevralgico di colui che deve affiancare coppie e bambini.
Un operatore psicosociale coinvolto nell’accompagnamento di una famiglia adottiva oggi e domani dovrà essere in grado di proporre un percorso di cura che parte dal primo incontro, per svilupparsi poi nella costruzione di quel legame che rende quella famiglia la miglior risorsa possibile per quello specifico bambino, fino alle immancabili crisi adolescenziali. In un’epoca di abuso di inglesismi ci permettiamo di chiamare questa relazione come un safe space e l’adozione un long life process, che però non coinvolgono solamente la persona adottata ma tutta la famiglia, proprio perché questa deve crescere e svilupparsi in un lungo arco di tempo. La principale funzione dell’Ente autorizzato alle adozioni internazionali oggi è quindi quella di configurarsi come lo spazio sicuro per la famiglia, per permettere alla stessa, a sua volta, di essere il rifugio accogliente per il figlio.
In queste tre giornate e in questa prospettiva, così, il mero dato statistico relativo al numero di minori adottati dal singolo Paese passa in secondo piano e finalmente ci si focalizza sui contenuti, sulle modalità di lavoro, sull’originalità delle proposte e non solamente su una corsa a chi fa i numeri più alti, a chi trova il maggior numero di bambini per il maggior numero di famiglie.
Del resto però i numeri parlano. Possono essere un efficace indicatore della salute di un’organizzazione e, per una famiglia adottiva, della possibilità o meno di diventare genitori. Superate le analisi statistiche è tuttavia necessario capire come quantificare la qualità, la competenza e l’efficacia di un intervento talmente delicato come l’affiancamento della famiglia adottiva nelle diverse fasi del suo percorso.
Nel momento in cui si riesce a dare una misura alla qualità del proprio lavoro, a quel punto diventa possibile presentarsi a un Paese di origine dei bambini come un interlocutore capace e concreto, in grado di fornire un servizio di eccellenza per le famiglie e di creare un reale impatto positivo sui bambini che provengono da quel Paese, adattandosi alle loro reali necessità. Questo diventa il fulcro, non tanto per fronteggiare una tanto sbandierata crisi, quanto piuttosto per mettere a fuoco la reale capacità di una organizzazione di diventare attore efficace ed efficiente nell’attuale contesto di protezione dell’infanzia.
Detto in altre parole, un’organizzazione che oggi dichiara di occuparsi di adozioni o più in generale di protezione dell’infanzia, e non è in grado di fornire un servizio con standard elevati alle famiglie che incontra, ma è piuttosto orientata ad identificare i Paesi più fragili, dove adottare è “più semplice”, ad individuare scalcinati istituti ai quali proporre accordi di esclusiva volti solo ad aumentare il proprio numero di adozioni o, semplicemente, a escogitare strategie per attrarre ed illudere il maggior numero di famiglie, dovrebbe fortemente interrogarsi sulla propria identità o quanto meno chiedersi se sta davvero operando nello stesso ambito di chi, su accompagnamento e formazione, investe in maniera consapevole e mirata.
Marco Rossin è il responsabile adozioni internazionali di Avsi
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