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La lezione di Avati: una malattia impossibile, come l’amore che dà

Intervista al regista di «Una sconfinata giovinezza»

di Marco Dotti

Il film in alcuni frangenti si accosta all’esperienza privata dell’autore: «Questo è un male che non dà appigli, ma davanti a quel muro
all’apparenza impenetrabile qualcosa però succede» Lino e sua moglie conducono una vita serena. Giornalista sportivo lui, professoressa lei, non hanno figli. Eppure, questa mancanza non ha minato la loro intesa, nemmeno dopo 25 anni di matrimonio. Un giorno, improvvisamente, Lino comincia ad avere problemi di memoria. Problemi che si accentuano sempre più fino a trasformarlo in un bambino. Ma Chicca non demorde: «Se c’è un modo perché la sua mente e la mia continuino a comunicare, lo devo trovare». Questa la trama di Una sconfinata giovinezza, l’ultimo film di Pupi Avati, escluso dalla 67esima Mostra del cinema di Venezia, ma destinato a richiamare l’attenzione del grande pubblico sull’amore di una coppia alle prese con i problemi della perdita della memoria e dell’identità legate all’Alzheimer. Una lezione per tutti, dichiara Avati, in occasione dell’anteprima milanese del film, in un periodo in cui «non si abbandonano più solo i cani ma anche i parenti, e la parola amore dovrebbe finire in testa a tutte le ricette mediche».

Vita: Quanto c’è di personale nel suo film?
Pupi Avati: Tanto, tutto. Lino, il protagonista, porta il nome di mio padre. Anche il cane di Lino, che si chiama Perché, ha lo stesso nome del cane di mio padre. Un padre che ho perduto presto, in un incidente stradale. Un padre che non è diventato anziano accanto a suo figlio, ma ne ha segnato comunque il percorso, dalla prima alla seconda sconfinata giovinezza, quella in cui mi trovo adesso, superati da poco i 72 anni. La malattia in cui si inscrivono le vicende del film, inoltre. Non è un espediente come un altro per narrare una storia drammatica e toccante. No. A Fabrizio Bentivoglio, che interpreta Lino, ho chiesto di non fare come Dustin Hoffman in Rain Man: pessima interpretazione, quasi caricaturale del malato. La questione dell’Alzheimer è delicata, e per usare una terminologia musicale va trattata da regista e attori non solo in battere, ma anche in levare: con levità, grazia, se possibile poesia. Dopo altre storia di vita, sto vivendo in casa l’esperienza di chi sta accanto a un malato di Alzheimer. La madre di mia moglie, donna un tempo bellissima, è stata colpita, ferita, persino punita direi nella sua fisicità, prima ancora che nella sua capacità di ricordare e riconoscere chi le sta accanto. Poi è venuta la perdita di memoria e il mutamento di carattere. È diventata aggressiva, di un’aggressività a lei prima sconosciuta. Una malattia terribile. Gli unici momenti in cui mia moglie riesce a ristabilire un rapporto e riattivare un contatto con la madre sono i momenti affettivi, i momenti dell’amore. Non ci sono terapie, c’è solo l’amore.
Vita: Lei è un regista di lungo corso, ha girato 42 film, eppure Una sconfinata giovinezza è la sua prima storia d’amore… Anche qui, c’è qualcosa di personale?
Avati: Io ho candidato l’amore a protagonista del mio film, perché l’amore è la parte attiva delle nostre esistenze. Non voglio dire che la mia lettura della malattia sia consolatoria, ma quanto meno non aggiunge disperazione a disperazione, mostrando che l’amore, la vita, gli affetti in qualche modo, vincono. E questa vittoria è una sorta di abbraccio, di ritorno a casa, di ritorno all’infanzia, di apertura a una giovinezza realmente sconfinata.
Vita: Quale è stata la svolta che l’ha portata a raccontare una storia d’amore così esplicita?
Avati: La svolta è stata la patologia che va a interporsi, persino a convivere nei due protagonisti del film, Chicca e Lino. Una patologia che avevo già vissuto sulla mia pelle, in famiglia e che ora mi presentava il conto, in fase di scrittura del film.
Vita: La malattia pur rafforzandoli, cambia i “ruoli” nella coppia dei protagonisti…
Avati: Chicca, davanti alla malattia di Lino, rafforza, quasi universalizza il proprio amore per lui. Però, al tempo stesso, questo amore la muta, la trasforma in una madre e Lino si trasforma in figlio. Ognuno, a modo suo, rinasce.
Vita: Lei ha parlato spesso della figura di suo suocero, anch’egli malato di Alzheimer. È stata la sua vicenda a ispirarle la storia, diventata anche un romanzo, in uscita proprio in questi giorni da Garzanti?
Avati: Vedere all’improvviso mutare una persona, veder emergere dal suo passato più remoto una figura a lui stesso ignota – quel bambino che era stato a 10, 11, 12 anni – e che improvvisamente si appalesava agli altri, si sedeva a tavola con noi, al posto suo, da un lato ci inquietava, dall’altro ci seduceva fortemente. Mio suocero era una persona autorevole che incuteva, a modo suo, timore. Vederlo cambiare così fu un duro colpo. A poco a poco perdeva aderenza al presente, acquisendo a sé strati di passato. L’Alzheimer è spesso definito la “malattia dei parenti”, sa perché? Perché è una malattia che non dà appigli, non lascia spazio, toglie il fiato e col fiato anche la possibilità di comunicare. Ma è proprio lì, davanti a quel muro all’apparenza impenetrabile che qualcosa succede. Succede il miracolo dell’amore, dell’affetto, del legame che, nel punto della sua massima fragilità, si fa forte, unico, inequivocabile. L’amore, la vita, l’esistenza. L’affetto malato ci chiama, ci richiama alla vita, come una ferita nel reale.


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