Cultura

La lezione del bibliotecario Borges: «Anche i libri hanno bisogno di socialità»

di Redazione

Nel 1955, dopo otto operazioni agli occhi, Jorge Luis Borges divenne quasi completamente cieco. Aveva 56 anni, ma i suoi capolavori dovevano ancora venire. L’Aleph, uno di quelli per cui verrà certamente ricordato, risale infatti a quattro anni dopo l’operazione ? chiamiamola così ? “fatale”. Eppure, per lui, che più che scrittore si considerava e continuò a ritenersi bibliotecario e “lettore”, i libri non persero nulla in quanto a fascino e fiducia. I libri, amava ripetere Borges, sono vivi al tatto, non solo alla vista. I libri, proseguiva, sono ponti gettati tra il ricordo e la speranza, tra uno ieri confuso se non ricordato e un domani incerto, se non atteso con grazia. Per questo i libri hanno la rara dote di animare il presente, senza inquietarlo. Che cosa sarebbe il nostro tempo, che ne sarebbe del nostro mondo se, all’improvviso, proprio i libri sparissero? Oggi la retorica sulla fine del libro si è un po’ attenuata, ma già in una conferenza dedicata, non a caso, al “tema” ? era il 24 maggio 1979 ? Borges osservava: «Si parla della scomparsa del libro; io credo che sia impossibile. Si dirà: che differenza c’è tra un libro e un disco? La differenza è che un disco lo si ascolta per l’oblìo, è qualcosa di meccanico, quindi di effimero. Un libro lo si legge per la memoria».
Fino al 1938, quando fu costretto a lasciare l’impiego per ragioni politiche, Borges lavorò d’altronde proprio come bibliotecario e forse nessuno come l’autore argentino incarna nel nostro immaginario la figura del bibliotecario-tipo: curioso e attento, paziente ma anche capace di lottare senza tregua contro i libri fuori posto e perché lo spazio della biblioteca sia realmente uno spazio comune. Sia come sia, pochi più di Borges hanno messo a frutto un’idea, peraltro antica visto che si ritrova anche in santa Teresa d’Avila e san Giovanni della Croce, che il libro non è solo e soltanto un oggetto che “sta” in un luogo, ma è soprattutto, esso stesso, un luogo capace come pochi di riempirsi di desiderio. Nel suo Elogio del libro, Romano Guardini ci ricorda infatti che il libro è un “mondo-tra”, un mondo tra altri mondi, uno spazio di ascolto e relazione. Richiede cura, spazio, affetto, tatto.
Le biblioteche, che altro sono se non questo luogo di cura in senso lato del libro e del lettore? Un libro può essere oggetto di commercio, ma c’è qualcosa nella sua natura ? già in piena luce nella sua polemica settecentesca sul diritto d’autore che vide impegnato Kant ? che lo sottrae al mero business. Un libro per essere tale deve venir letto, ma anche conservato, non esclusivamente consumato o venduto, proprio perché non è una merce come tutte le altre. I libri, ha scritto il filosofo Jean-Luc Nancy (Del libro e della libreria. Del commercio delle idee, Cortina editore, Milano 2006), sono «facili da bruciare e tuttavia difficili da consumare. Sono materialmente il nostro pensiero, grave e fuggente, disponibile e segreto, ostinatamente condiviso tra di noi come la promessa di nient’altro se non di questo stesso commercio».

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