Ho sempre cercato di raccontare musica contemporanea. Di ragazzi giovani, magari underground, poco conosciuti ma meritevoli. Questo è uno strappo alla regola. Perchè il musicista di cui si parla ha circa 71 anni ed è un campione di quel folk sociale tipico degli States anni 60′. Ma la contraddizione si ferma qui. Perchè si tratta forse del musicista più underground che ci sia. Il cantautore meno consociuto degli Usa nella storia della musica.
Si chiama Sixto Rodriguez, sesto figlio (ecco il perchè del nome) di un messicano e di una nativa immigrati negli Stati Uniti, cresciuto nella Detroit degli anni ruggenti dell’industria automobilistica americana.
Nel 1969 viene scoperto in un club della città da Clarence Avant, produttore della Motown Records. Si tratta di un signore che al tempo era manager di Miles Davis e Louis Armstrong di li a poco avrebbe avuto nella proprio scuderia anche Bob Dylan, Steve Wonder, Diana Ross e un giovanissimo Micheal Jackson. Non a caso veniva chiamato “Godfather of Black Music”.
Avant di Sixto dice «se dovessi citare dieci artisti con cui ho avuto a che fare Rodriguez sarebbe tra i primi cinque. È il mio artista più memorabile. Al suo confronto Bob Dylan era scarso». La carriera inzia in fretta e nel giro di due anni, nel ‘70 e nel ‘71, escono i suoi primi due album, “Cold Fact” e “Coming From Reality”. Due lavori che riscuotono ottime recensioni ma si dimostrano due clamorosi flop di vendita. Per questo sranno anche gli ultimi della sua carriera. L’etichetta abbandona Sixto. E di lui non si sa più nulla.
Ma è qui che la storia diventa interessante. Si perchè quei dischi in Sud Africa, diventano il simbolo e la colonna sonora della ribellione all’apartheid. Tanto che due persone, un appassionato e un giornalista sudafricani, decidono di scoprire che fine abbia fatto il loro beniamino. Le indagini però portano ad una scoperta scioccante: sembra infatti che Sixto, ormai dimenticato da tutto e da tutti, abbia fatto un ultimo concerto in un anonimo bar di Detroit. Doveva essere molto teso perchè decide di dare le spalle al pubblico per tutto il tempo. E suona male. Tanto che viene fischiato per tutto il tempo. Alla fine c’è il coupe de theatre: Sixto si suicida sul palco. C’è chi dice si sia sparato, chi invece che si sia dato fuoco. Rimane una morte clamorosa e disperata.
“Tutto qui?” vi starete chiedendo. E invece no. Perchè si tratta di leggende urbane. Come succede con ogni grande personaggio, e dunque anche con Sixto, il mito muta di leggenda in leggenda è diventa un simbolo, un totem. Ed è qui che la storia riserva un ultimo, pirotecnico, colpo di scena. Quando infatti sembra che le ricerche siano terminate, per caso, i due “investigatori” si imbattono in una ragazza. Dice di essere la figlia di Sixto. Ma sopratutto dice che il padre è ancora vivo.
Rodriguez negli ultimi 30 anni ha fatto l’operaio edile vivendo nella stessa casa di sempre nei sobborghi di Detroit. E non sa nulla dell’immmenso successo della sua musica dall’altra parte del mondo.
La storia diventerà un documentario, “Serching for Sugar Man” dello sevedese Malik Bendjelloul , premiato quest’anno con l’Oscar.
Il trailer del documentario premio Oscar 2013 di Malik Bendjelloul sulla storia di Sixto Rodriguez
Sixto andrà diverse volte in Sud Africa in turneè. La prima volta nel 1998. E verrà sempre accolto come una grande rock star. La sua vita non cambia, nessun agio, nessun guadagno. La stessa umiltà di sempre.
Il documentario del “Dead man don't tour’ del 1998. Il suo primo ritorno a "casa” in Sud Africa
Ho conosciuto questa vicenda strordinaria proprio grazie al documentario. A metà del quale ho preso il computer e ho ordinato online i due vinili che sto ascoltando in loop in questi giorni. È vero c’è una radice che richiama Bob Dylan. Ma c’è molto altro. Testi molto più diretti e crudi, musiche in alcuni casi anche sperimentali e più dure rispetto al classico folk. Tutto questo senza contare le tante influenze sonore latine che richiamano le sue origini ma non sono mai scomposte o fastidiose. La sua musica insomma è all’altezza della sua biografia.
La bellezza di questa storia infatti sta nel fatto che dimostra la forza della musica. Della vera musica. Quella fatta col cuore. Quella che tocca l’anima. Una storia che ribalta tutti i clichè moderni e le convinzioni dello show biz. Un uomo, periferico, anonimo anche nel nome (con quel Sesto che lo rende solo uno di tanti figli e quel Rodriguez così comune tra gli immigrati ispanici) e sincero nel fare la sua arte. Non c’è nulla di costruito, nessun marketing, nessun occhio strizzato al mercato. E la storia sembra andare come tutti si aspetterebbero. Oblio e silenzio. Invece, quando l’arte è fatta per comunicare, veramente, prima o poi, da qualche parte viene ascoltata. E smuove mari e monti. Sixto magari non avrà guadagnato un solo dollaro dalle sue canzoni. Ma ha lasciato un segno idnelebile nella storia.
Una vita quella di Sixto che spiega, meglio di qualunque discorso, fino alla radice i motivi per cui scrivo “Battiti per Minuto”.
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