Famiglia
La Kafala negata. Un velo nasconde le “adozioni” islamiche
L'Italia non riconosce l'istituto diffuso nel Maghreb
Malgrado la Convenzione dell’Aja e le raccomandazioni del Comitato per l’Islam, è proibita l’accoglienza, anche di coppie straniere, secondo la pratica nordafricana È un vuoto legislativo che l’Italia si trascina da molti anni e che ricade su migliaia di minori nordafricani (60mila solo quelli accolti negli istituti marocchini, 2 milioni e 700mila in tutti i Paesi del Maghreb). Si tratta del mancato riconoscimento giuridico della kafala, il solo strumento di protezione dei bambini fuori famiglia previsto negli ordinamenti musulmani.
La kafala è una forma di accoglienza che si trova a metà strada tra il nostro affidamento e l’adozione vera e propria: una coppia o anche un singolo (kafil) può prendere in affido un minore orfano o comunque privo di assistenza e mantenerlo, educarlo e istruirlo come fosse figlio fino alla maggiore età. Il bambino (makful) non prende però il nome della famiglia “affidataria” e non può aspirare a diritti successori. Ogni singolo Paese di area islamica ha disciplinato, in modo più o meno dettagliato, la kafala, che può avere natura giudiziale o negoziale (cioè essere stabilita da un’autorità giudiziaria o da un accordo tra le parti). Il “nodo” della kafala è arrivato al pettine nel nostro Paese prima di tutto per le coppie straniere residenti in Italia (e per le coppie miste) che chiedevano il ricongiungimento per i loro figliocci accolti in kafala.
Come dovevano essere considerati questi bambini? Le norme di politica migratoria si scontrano con le regole auree della protezione dei minori: se da un lato la stessa Convenzione di New York del 1989 la riconosce come un istituto di protezione del fanciullo, dall’altro l’orientamento della Commissione Visti italiana è stato a dir poco prudente in tutto il corso di questo decennio: gran parte degli ingressi sono stati respinti per timore che la kafala aggirasse le leggi sull’immigrazione e nascondesse situazioni poco chiare (spose bambine, traffico di minori). Nel 2008 è arrivata la Corte di Cassazione, con due sentenze, a invertire la rotta: l’interesse del minore ad essere ricongiunto alla sua famiglia “affidataria” è superiore alle regole del Testo Unico sull’immigrazione.
Tutto bene, dunque? Non tanto. Perché centinaia di coppie di immigrati (circa 600, secondo un dato AiBi) che hanno fatto la kafala sono tuttora impantanate nelle sabbie della Commissione Visti. E se la kafala fatica a essere riconosciuta per gli stranieri residenti, a maggior ragione oggi rappresenta uno scoglio insormontabile per le coppie italiane disponibili all’adozione. Le difficoltà di ordine giuridico – nonché religioso: la famiglia dovrebbe convertirsi all’Islam per garantire al bambino continuità educativa nella propria fede – appaiono ancora molto pesanti.
«L’adozione di un minore da parte di una coppia straniera resta un fatto abbastanza eccezionale nel mondo islamico», conferma Paolo Branca, islamista dell’università Cattolica di Milano. In quanto componente del Comitato per l’Islam presso il Viminale, Branca spiega la recente presa di posizione dell’organismo riguardo alla kafala. «Abbiamo raccomandato che l’Italia adotti una normativa di recepimento della kafala nell’ambito della ratifica della Convenzione dell’Aja del 1996». Ed è proprio questa normativa, dedicata a tutte le situazioni di difficoltà dei minori non accompagnati, che potrebbe far rientrare l'”adozione islamica” nel diritto italiano.
Peccato che il nostro Paese si trovi tra gli otto richiamati dalla Commissione Ue per non aver ancora provveduto alla ratifica della Convenzione.
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