Volontariato

La guerra di Piero alla guerra

di Pasquale Pugliese

Ricordare Pietro Pinna per continuarne l’impegno

Non so se Fabrizio de Andrè nello scrivere, nel 1963, la celebre ballata “La guerra di Piero” – dove si racconta la fatale esitazione ad uccidere di un soldato, che vide un uomo in fondo alla valle” che aveva lo stesso identico umore/ma la divisa di un altro colore”, che ne determinò la morte – conoscesse la storia di Pietro Pinna – detto Piero – e della sua esitazione ad imparare a uccidere, a diciotto anni. Esitazione che diventò la prima obiezione di coscienza italiana all’obbligo militare, per ragioni di antimilitarismo, e poi l’intransigente lotta nonviolenta alla guerra ed ai suoi strumenti, per il resto della vita. Ad alcuni giorni dalla sua dipartita – avvenuta il 13 aprile, a 89 anni – è il momento di proporre qualche riflessione sulla formidabile esperienza politica di Piero – che ha contribuito sostanzialmente a cambiare il Paese dal basso – filtrata dai miei ricordi personali.

Non ho avuto una frequentazione diretta molto fitta con Piero, ma sapevo che lui – praticamente fino alla fine dei suoi giorni – leggeva attentamente tutti i verbali del Coordinamento nazionale del Movimento Nonviolento, nel quale sono stato eletto a partire dal Congresso di Fano del 1997, e tutti i numeri di Azione nonviolenta. In quel periodo Piero aveva già fatto un passo indietro e non partecipava più attivamente alla vita del Movimento, se non in momenti straordinari, pur avendo piena consapevolezza del nostro lavoro. Ma lo avevo già conosciuto, Piero, alcuni anni prima, precisamente l’8 ottobre del 1990, quando lo incontrai in via Villaggio Santa Livia – la casa di Aldo Capitini, diventata sede perugina del Movimento Nonviolento – il giorno dopo la marcia Perugia-Assisi. L’organizzazione di quella marcia – la mia prima – e anche della precedente non era stata curata da Piero (a dal Movimento Nonviolento), che aveva avuto anche il merito di riprendere l’idea della Marcia di Capitini del 1961 per riproporne una seconda nel 1978 (per il decennale della morte del filosofo perugino) e poi ancora nel 1981 e ’85, come azione diretta di lotta politica per il disarmo, senza volerne fare un evento rituale.

Gli avevo scritto, prima di partire in pullman da Messina – dove studiavo filosofia – alla volta di Perugia, per chiedergli un incontro: avevo deciso di fare la tesi di laurea sull’opera di Aldo Capitini e molti materiali erano già allora introvabili. Piero mi rispose che mi avrebbe incontrato e così andai a trovarlo. Mi accolse al mattino di fronte ad una zuppa di latte e pane, in una stanza austera dove alle pareti c’erano i ritratti fotografici di Gandhi, Tolstoj, Lorenzo Milani e dello stesso Capitini.  C’era un’aria di severità nella sua figura filiforme che incuteva soggezione, o almeno così mi parve: mi aiutò a trovare i materiali necessari, tra le carte di Aldo ed anche presso l’adiacente Fondazione Capitini. E poi mi indicò una copisteria dove – su sua indicazione – mi avrebbero fatto risparmiare sulle copie. Rimasi a Perugia qualche giorno, incontrandolo un paio di volte, e poi ripartii con la borsa pesante di appunti e fotocopie e la consapevolezza di aver incontrato un pezzo di storia del Paese, grazie al cui impegno e sacrificio, che gli costò anni di processi e carceri militari, anch’io – come tanti altri giovani prima e dopo di me – avrei potuto svolgere il servizio civile sostitutivo, da obiettore di coscienza.

Dopo alcuni incontri pubblici, nel tempo sempre più rari, andai a trovarlo di nuovo a casa nel 2003. Stavolta a Firenze, dove ha vissuto fino alla fine. Insieme a Luca Giusti del Movimento Nonviolento di Genova. Nel 2001 a Genova c’era stata la trappola ai movimenti che si battevano per un altro mondo possibile, con la militarizzazione della città, l’omicidio di Carlo Giuliani, la mattanza alla scuola Diaz e la sospensione della democrazia nel carcere di Bolzaneto. Questo provocò una profonda riflessione tra le molte associazioni legate nella “Rete Lilliput per un’economia di giustizia” – alla quale aderiva anche il Movimento Nonviolento – sul tema delle pratiche nonviolente nel nostro Paese e sulla necessità di approfondirle, costituendo nuovi “gruppi di azione nonviolenta”. Per dare un contributo a questo percorso di consapevolezza, andammo a farci raccontare da Piero il suo Gan (gruppo di azione nonviolenta), costituito all’origine dell’esperienza del Movimento Nonviolento, che aveva creato insieme a Capitini nel 1962. Il racconto diventò una lunga intervista pubblicata sul numero di luglio 2004 di “Azione nonviolenta” – la rivista fondata insieme a Capitini nel 1964 e della quale fu direttore responsabile dal 1968 al suo ultimo giorno – nella quale sono narrate “le prime azioni dirette nonviolente in Italia”. Piero ci raccontò del sacrificio e della costanza necessarie per agire in pochi, con la nonviolenza attiva, per portare la richiesta del diritto all’obiezione di coscienza in diverse città del Paese, ci raccontò dei rapporti con la polizia e della necessità di sviluppare una gradualità di conflitto nonviolento – in un momento nel quale nel Paese spesso le manifestazioni finivano nella violenza di piazza – e poi ci raccontò anche delle tante marce antimilitariste per contestare le servitù militari.

Non mancò, infine, di indicarci, ancora una volta, l’urgenza dell’impegno attuale: “i movimenti dovrebbero finalmente arrivare a capire che non questa o quella guerra va avversata, soltanto nel momento ultimo del suo esplodere, ma che è l’idea della guerra in sè che va rifiutata, alla sua origine, nella mentalità e nelle corrispettive istituzioni che la mantengono in essere quale necessario mezzo estremo…i movimenti, se veri nonviolenti nel loro impegno pacifista, non dovrebbero tornare tranquillamente ad eclissarsi una volta terminata l’ennesima guerra, per poi soltanto rimettersi in marcia agli squilli della nuova guerra, ma invece rimanere in campo e subito, dal giorno dopo, trovarsi impegnati per l’abolizione qui ed ora della macchina portante della guerra, l’esercito”. Questo impegno è il compito “più essenziale e urgente: il campo dell’opposizione assoluta alla guerra, ossia l’azione per il disarmo unilaterale, integrale e immediato dell’esercito. Vale a spenderci tutta una vita”

L’ultima volta che ho incontrato Piero, sempre a Firenze, è stato il 16 dicembre del 2012. Nella seconda giornata del convegno “Avrei (ancora) un’obiezione!” per i 40 anni della legge 772 del 1972 che aveva riconosciuto, per la prima volta nel nostro Paese, la possibilità di svolgere un servizio sostitutivo civile alternativo a quello militare. E’ stato un convegno importante dove Piero – instabile sulle gambe ma lucido come sempre – circondato dall’affetto di tutti prese anche la parola – per l’ultima volta in pubblico – per un veloce saluto ai presenti. Non poteva esserci viatico migliore per lanciare l’ “Alleanza per il futuro del servizio civile” tra le organizzazioni degli Enti di Servizio Civile e le organizzazioni nonviolente e pacifiste per “rendere effettiva la possibilità di concorrere, in alternativa al servizio militare, alla difesa della Patria, con mezzi e attività non militari, come previsto dalle legge istitutiva”. Alleanza sempre più stretta, da cui ha avuto origine la Campagna Un’altra difesa è possibile per l’istituzione della difesa civile, non armata e nonviolenta, fondata sul disarmo e la pari dignità tra difesa civile e militare. Una Campagna che continua.
Un impegno che continua, anche per continuare la guerra di Piero. Alla guerra.

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