Sostenibilità

La guerra dello Stile di Vita

"Il nostro stile di vita non è in discussione" lo ha detto prima Bush senior, poi Blair, poi Elisabetta II. E tutte le volte in occasione di una guerra...

di Leonardo Tondelli

La flemma con cui i londinesi hanno reagito agli attentati è più facile da ammirare che da imitare. Eppure anche per noi non è più il caso di chiedersi “se” i terroristi attaccheranno, ma “quando” (recentemente i jihadisti ci hanno ricordato che la nostra omeopatica presenza militare in Iraq è diventata, quatta quatta, la terza in dimensioni dopo USA e Regno Unito). E “quando” avverrà, dunque, anche noi vorremmo saper reagire con calma e fermezza, tenendo lontane le videocamere dai crateri del terrore: viceversa, è più probabile che ne approfitteremo per litigare, in chat e in parlamento, sulla definizione di guerra al terrorismo, mentre Studio Aperto zooma sulle pozze di sangue. Spero – come sempre – di sbagliarmi. Magari siamo ancora in tempo per imparare qualcosa dagli inglesi. Ma cosa?

Ognuno ammira nel vicino una sua particolare idea di erba più verde. Io invidio agli anglosassoni, più di ogni cosa, la lingua. La pulizia verbale. L’inglese è un idioma flessibile, ma asciutto. Pochi fronzoli, pane al pane, vino al vino: non è una lingua da isterici. Naturalmente anche in inglese si possono condurre discussioni oziose. È solo più difficile. Il paragone con la nostra lingua, e il modo in cui la usiamo, è impietoso. Per esempio: si discute molto, in questi giorni, se la guerra al terrorismo sia o no un conflitto di civiltà. Sarebbe a dire? Cos’è una civiltà? Una cattiva traduzione dell’inglese civilization, che forse in quel caso andava reso con “cultura”. E cioè? Cos’è una cultura? In realtà non è molto chiaro. Senz’altro non è qualcosa che si mangia. Forse che si legge? Sì, nei libri che paradossalmente gli italiani leggono meno volentieri: il Vangelo, la Divina Commedia, i Promessi Sposi? E poi? Possibile che migliaia di terroristi si immolino in nome o in odio a un concetto vago come la “cultura”? Possibile che USA, Regno Unito e ben tremila effettivi italiani stiano occupando da anni l’Iraq per un problema di “cultura”? È molto inverosimile. E perché continuiamo a parlarne? Perché la nostra lingua è un po’ così: ridondante, naturalmente attratta dai sostantivi astratti e vacui.

Nel frattempo gli inglesi (e gli americani) parlan d’altro. Avete sentito Blair in conferenza stampa, a poche ore dagli scoppi: “the British way of life is not under discussion”. Lo stile di vita britannico non è in discussione. Un paio di giorni dopo, anche la regina, ha voluto ribadire il concetto. Ecco, questo io invidio alla lingua inglese: la franchezza, la facilità con cui va dritta al nocciolo. E il nocciolo non è la “cultura”, non è la “civilization”, ma una cosa molto più terra-terra: il “way of life”. Lo stile di vita. È questo l’obiettivo dei terroristi: è questo il fronte da cui Bush ed Elisabetta II non hanno la minima intenzione di indietreggiare. Non la “cultura”, non la “civiltà”: più banalmente, si tratta di salvare il tè delle cinque, la pinta delle sei. Il Chelsea e l’Arsenal, il tube e i bus a due piani. L’esistenza tumultuosa e pacifica dei milioni di inquilini del Londonistan. Qualcosa che si mangia, si beve, si respira, si vive, e soprattutto non si discute: primo, perché nessuno ha il diritto di toglierla a un popolo sovrano; secondo, perché non c’è nessun bisogno di “discuterla”, letteralmente: tutti gli inglesi sanno bene cos’è. Dio gliel’ha data. E guai a chi gliela tocca.

Lo “stile di vita”, in realtà, non è una prerogativa britannica. È un vecchio ritornello, per esempio, dei presidenti americani. George W. Bush in particolare ne ha fatto il suo tormentone. Si può transigere sul riscaldamento globale, sul diritto internazionale: non sul “way of life”. Anche al G8 scozzese, cos’è successo? Bush ha ammesso che il mondo si sta scaldando (e questa è già di per sé una notizia, c’è fior di intellettuali e studiosi e romanzieri disposti a spergiurare il contrario). Ciononostante non firmerà il protocollo di Kyoto, per i noti motivi: perché non funziona, dice (e in effetti è difficile che funzioni, finché gli americani non lo firmano?) ma soprattutto perché “lo stile di vita degli americani non è in discussione”. E lo stile di vita degli americani, si sa, è fatto di grattacieli e case di legno nei sobborghi, e big mac king-size alle stazioni di servizio di autostrade infinite, da percorrere in SUV, moderne carovane a idrocarburi. Grandi ruote, grandi serbatoi, grandi razioni: gli americani sono fatti così, amano aver molto cibo nel piatto. L’abbondanza è uno stile di vita, e lo stile di vita non è in discussione. Può sembrare un discorso antipatico.

Però è un discorso chiaro, e ha il pregio di mettere in nero su bianco la questione. Qui in Italia amiamo ammorbarla con divagazioni che c’entrano come i cavoli a merenda. Ci siamo messi persino a parlare di religione, come se in giro si fosse all’improvviso diffusa una pia preoccupazione per la salvezza delle nostre anime. Ma basta farsi un giro in riviera una di queste domeniche per accorgersi che così non è: siamo sempre gli stessi allegri buzzurri. Preoccupati, sì. Ma non certo per i nostri peccati, o per gli embrioni destinati al martirio. I crocefissi che pendono un po’ da tutti i colli, e dai muri delle scuole statali, non stanno certo a significare che saremmo pronti a morire per testimoniare Gesù Cristo. Ma prova a toglierci il campionato, il gran premio, lo struscio in centro, i maccheroni al sugo, e vedrai, se tutti questi italiani brava gente non iniziano anche loro a ringhiare.

Ecco, forse questo potrebbe essere il primo passo verso l’olimpica serenità britannica: un semplice atto di igiene verbale. Sgomberiamo la scena da pupazzi retorici più dannosi che inutili. Noi non stiamo combattendo per salvare una nostra supposta “cultura”. Noi combattiamo per la nostra sicurezza, il nostro diritto a consumare tot petrolio a tot cents il litro, le nostre mensilità, il nostro traballante benessere. Per i piaceri della vita che i terroristi ci invidiano e che hanno intenzione di rovinarci. Ecco perché combattiamo. Ecco perché dobbiamo mantenere la calma, mentre là fuori qualcuno punta su di noi.

Certo, a questo punto ci si potrebbe anche chiedere: ma davvero il nostro “stile di vita” è così fuori discussione? Davvero è qualcosa che vale la pena di difendere? E al di là del terrorismo, non basta già l’inflazione percepita a mettere in discussione questo nostro stile? Non basta la disoccupazione, la recessione economica, l’anticiclone delle Azzorre che fa le bizze? La verità è che lo “stile di vita” degli italiani, se c’è, è qualcosa che si rinegozia giorno per giorno, e di solito al ribasso. Ma in fondo non è così anche per i nostri compagni anglosassoni? Forse che naufragare nella propria casa devastata da un ciclone fa parte dello “stile di vita americano”?

È un’obiezione sensata, ma inutile, dal momento che siamo in guerra. I nostri comandanti in capo lo hanno detto ben chiaro: tenere la posizione. E la posizione è il “way of life”. Razionalmente, non è difficile rendersi conto che si tratta di una posizione troppo avanzata, irrealistica. Il venti per cento degli umani non possono pretendere di godere all’infinito dell’ottanta per cento delle risorse. In un qualche modo, primo o poi il Sud del mondo romperà il meccanismo. Forse il grimaldello sarà il fanatismo islamico, o la tecnocrazia alla cinese, o una catastrofe climatica, o qualche altra nuova minaccia che ora nemmeno immaginiamo. Ma non c’è dubbio che la Guerra per lo Stile di Vita Occidentale, nei tempi lunghi, sia persa. Si tratta solo di perderla lentamente, con classe, offrendo al mondo un’immagine orgogliosa e tranquilla, di chi sa perdere un impero senza fiatare. E in questo gli inglesi, davvero, hanno tutto da insegnarci.

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