Non profit

La guerra d’Africa in diretta

Lo straordinario resoconto di un coooperante di Avsi dalla Repubblica democratica del Congo

di Emanuela Citterio

I ribelli del generale dissidente Laurent Nkunda marciano su Goma, capoluogo della provincia orientale Nord-Kivu della Repubblica democratica del Congo, e rinfocolano la più grande guerra del continente africano, che finora ha fatto oltre cinque milioni di morti. Oggi migliaia di cittadini congolesi hanno attaccato la sede della forza Onu a Goma accusando le Nazioni Unite, forti di 18.000 uomini dispiegati nel Paese, di non rispettare il loro mandato di proteggere la popolazione. La forza Onu non è riuscita a far cessare gli scontri nella vasta regione del Nord-Kivu ed entrambe le parti la accusano di parteggiare per l’altra.

Direttamente da Goma a raccontare queste ore decisive è il rappresentante dell’organizzazione non governativa Avsi. Ecco la sua testimonianza ottenuta da vita.it.

di Edoardo Tagliani (Rappresentante Avsi nella Repubblica democratica del Congo, nella foro con i bambini del progetto della ong)

DA GOMA – Il delegato speciale dell’Unione Europea per l’Area Grandi Laghi e il mediatore congolese scelto dal governo Kabila per gestire il programma di stabilizzazione delle zone di conflitto, siedono l’uno accanto all’altro. Alla cima del lungo tavolo riunioni di Ocha (organismo Onu per il coordinamento dell’attività umanitaria), sfoggiano facce cupe e ci impiegano un’ora per dire una cosa semplice. Tanto semplice che qualunque giornalista la condenserebbe senza fatica in un titolo da taglio centrale: «Basta parole, è tempo di guerra».
Il maggiore gruppo ribelle operativo nel Nord Kivu (Cndp) afferra i microfoni delle principali radio del posto e si ritira da tutti gli accordi presi per il cessate il fuoco e l’avvio della mediazione.
I gruppi armati minori (sono almeno tre: Fdlr, Pareco e Mai Mai) non sanno che pesci prendere e in attesa di veder che aria tira, per far passare il tempo, saccheggiano interi villaggi e reclutano bambini soldato. Attività ricreative peraltro non disdegnate anche dal sedicente esercito regolare (Fardc).
I caschi blu dell’Onu convocano un’altra assise davanti alla quale non fanno altro che capitolare in triste burocratese: «Vista l’odierna escalation della crisi, noi siamo in grado di garantire la capacità operativa delle nostre truppe per rispettare il mandato affidatoci».

Insomma, non è una gran settimana. Lo si capiva già mercoledì mattina, quando facce ben più tristi di quelle dei “mediatori internazionali” affollavano una delle poche strade dei Virunga.
Centinaia di anime in marcia per sfuggire al conflitto.
Sotto il cielo affannato di mortai, l’esodo dei profughi continua inesorabile e lento, costante, sfibrante.
Quattordici anni di guerra.
«Questa nuova crisi si prospetta peggiore della precedenti» dichiara funereo un altro graduato dei caschi blu. Qualcuno che i gradi non li ha, alza la mano e ribatte: «Lei è arrivato cinque mesi fa. E come tutti quelli che arrivano e partono nell’arco di un anno, lei parla di “nuova crisi”. E’ sempre la stessa, di crisi. E’ una guerra che dura da più di un decennio. Solo che per accorgersene, bisogna viverla». L’autore della dichiarazione, ovviamente nativo di Goma, snocciola date ed eventi che svelano, senza tema di smentita, la verità: l’Est Congo conta i suoi morti da troppo tempo. Ad oggi ne ha contati, secondo stime esageratamente prudenti, più di sei milioni. Un Olocausto.
Il quotidiano bollettino degli orrori aggiunge cifre a cifre, metafora statistica dei mucchi di cadaveri che divengono montagne.
Da 800.000 profughi a 1.100.000. I decessi, al momento, nessuno li registra sul serio, perché non serve. L’urgenza è occuparsi dei vivi. La conta di chi non c’è più è mero esercizio algebrico: sotto i riflettori d’una guerra da Tv, farebbe audience. Ma nelle tenebre d’una guerra dimenticata, il gran totale del dolore non serve a nulla. A chi piange un figlio, una madre o un fratello, non interessa sapere quanti altri sono morti oggi.
E per chi annaspa nel tentativo di dare una mano ai vivi, le salme sono irrilevanti.

Guerra dimenticata. Altra falsità. Per scordare qualcosa è necessario, prima, conoscerla. La guerra del Congo è una guerra sconosciuta, non dimenticata.
Quattordici anni di atrocità che si condensano in un mercoledì mattina qualunque. Perché le rughe e le lacrime della donna che trasporta sulle spalle i suoi miseri averi (qualche padella, quattro stracci e un bambino appena nato) sono la troppo umana e brutalmente estrema sintesi d’una storia che nessuno scriverà mai.
Le dichiarazioni ufficiali si rincorrono e si alzano di tono, ma non tengono conto delle rughe della donna e del suo fagotto rattoppato. Non dicono cosa penserà la sera, dove passerà la notte, come mangerà una volta sveglia, cosa potrà inventare per almeno sperare, soltanto sperare, di dare un futuro al bambino ignaro che adesso ronfa sulle sue spalle stanche.

Qui AVSI lavora con 35.000 bambini sfollati che da 14 mesi vivono in improvvisati campi profughi. Dai 3 ai 18 anni. Uno di questi campi è a cinque minuti d’auto dai mortai.
Il tentativo è quello di far vivere ai più piccoli dei momenti di normalità anche in mezzo alla guerra.
Mentre gli animatori fanno il loro mestiere e arbitrano partite di calcio, improvvisano girotondi o insegnano a disegnare, l’aria si fa pesante di bum in lontananza.
Gli adulti si guardano, inviano messaggi, chiedono notizie agli uomini bianchi e alle loro grandi radio che sono fatte apposta per parlar lontano.
I bambini no. Giocano distratti. Sorridono. Battibeccano.
L’equipe di AVSI chiede cosa fare se i soldati scenderanno verso sud, se il fronte si sposterà in direzione di Goma. Domande a mezza voce, perché in un campo profughi, il panico può uccidere più delle pallottole. E se l’equipe di AVSI scapperà correndo nel bel mezzo della canzone del coro, allora sarà panico.
I combattimenti sono ancora distanti. Si continua a giocare, dunque. Un’auto resterà pronta a portare via lo staff se i militari si avvicineranno troppo.
Vivere in guerra è l’arte difficile del momento giusto, dell’istante, della pazienza.
Non serve coraggio, servono allenamento e paura. Paura per restar desti, allenamento per capire quando ha ragione la paura. E le popolazioni del Kivu, si allenano da dodici anni a capire la loro paura.
Altri membri dello staff di AVSI sono dall’altro lato della linea di fronte. Lontani e al sicuro, ma isolati. Non possono tornare in città. Quindi inutile perder tempo. Si lavora piantando ortaggi o distribuendo quaderni. Una telefonata ogni tanto per esser sicuri che nessuno manca all’appello.

Le dichiarazioni ufficiali fanno paura: i nomi delle etnie, prima solo sussurrati, forse per scaramanzia o forse per cercare di scordare, oggi vengono sbandierati ad ogni istante. La parola mediazione è ormai costantemente preceduta dalla parola tentativo. La parola soluzione è stata sostituita dalla parola intervento. Sotto lessico, retorica e semantica, strisciano la volontà e la certezza di sparare.
Delle rughe della donna, nemmeno l’ombra.
Eppure la guerra non è fucili. E’ rughe.
Ma chi fa le dichiarazioni, solitamente, si fa anche un lifting.
I ben informati dicono che una guerra come quella del Congo si chiama guerra a bassa intensità e che le guerre a bassa intensità sono i conflitti più logoranti che l’uomo conosca. La tortura della goccia. Lo stillicidio.
Rughe.
Non di vecchiaia, ma di stanchezza. Rughe di chi striscia i piedi esausto e guarda il cielo, sforzandosi di ricordare che è blu.
In periodi come questi, la cooperazione e l’aiuto umanitario, abbandonati (o avversati) dalla politica e dai grandi poteri internazionali, non possono far molto.
Ma una cosa possono farla. Camminare vicino alla donna con le rughe e ripetere a mezza voce insieme a lei che sì, il cielo è blu.
Perché è proprio blu, il cielo. Nonostante gli uomini in guerra, il cielo è blu.

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