Cultura

La grandezza di dare e di darci

Il volume “Servire gli altri” (ed. Libreria Vaticana e Jaca Book) raccoglie le omelie pronunciate tra il 2002 e il 2004 dall’allora arcivescovo di Buenos Aires. Ecco un estratto

di Redazione

È uscito in questi giorni in libreria il volume “Servire gli altri” (ed. Libreria Vaticana e Jaca Book) che raccoglie le omelie pronunciate tra il 2002 e il 2004 dall’allora arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio, durante le celebrazioni del 25 maggio e del 7 agosto, date profondamente significative per gli argentini che attraversano in quegli anni una profonda crisi economica e sociale. Qui una delle omelie raccolte nel volume, fu pronunciata nella cattedrale di Buoneos Aires il 25 maggio 2002.

 

Forse, come poche volte nella nostra storia, questa società gravemente ferita aspetta una nuova venuta del Signore. Aspetta la venuta guaritrice e riconciliante di colui che è Via, Verità e Vita. Abbiamo motivi per sperare. Non dimentichiamo che il suo passaggio e la sua presenza salvifica sono stati una costante nella nostra storia. Abbiamo scoperto la meravigliosa impronta della sua opera creatrice in una natura di incomparabile ricchezza. La generosità divina si è riflessa anche nella testimonianza di vita di dedizione e di sacrificio dei nostri padri e antenati e similmente in milioni di volti umili e credenti, fratelli nostri, protagonisti anonimi del lavoro e di lotte eroiche, incarnazione della silenziosa epopea dello Spirito che fonda i popoli.

Tuttavia, viviamo troppo distanti dalla gratitudine che meriterebbe un così grande dono ricevuto. Che cosa ci impedisce di vedere questa venuta del Signore? Che cosa rende impossibile «gustare e vedere com’è buono il Signore» (Sal 34,9) di fronte a tanta prodigalità nella terra e negli uomini? Che cosa ostacola le possibilità di sfruttare nella nostra nazione l’incontro pieno tra il Signore, i suoi doni, e noi? Come nella Gerico di un tempo, quando Gesù attraversava la città e quell’uomo di nome Zaccheo non riusciva a vederlo tra tanta folla, qualcosa ci impedisce di vedere e sentire la sua presenza. Nella scena evangelica ci viene data la chiave di lettura in termini di altezza e abbassamento. Di altezza, perché Zaccheo si lascia conquistare il cuore dal desiderio di vedere Gesù ed essendo piccolo di statura corre avanti e sale su un sicomoro. Nessun talento, nessuna ricchezza possono sostituire una superficialità morale o in ogni caso, se il problema non è morale, non c’è via di uscita per uno sguardo rivolto verso il basso, senza speranza, rassegnato ai suoi limiti, privo di creatività.

In questa terra benedetta, sembra che le nostre colpe abbiano abbassato i nostri sguardi. Una triste determinazione interiore si è radicata, con conseguenze paurose, nel cuore di molti di quelli preposti a difendere i nostri interessi: la colpa dei loro inganni aggrava la ferita e, invece di cercare la cura, insistono e pensano soltanto ad accumulare potere, a consolidare i fili di una ragnatela che impedisce di vedere la realtà sempre più dolorosa. Così crescono la sofferenza altrui e la distruzione provocate da questi giochi di coloro che detengono il potere, e le ricchezze diventano, per loro, solo pedine di una scacchiera, nu- meri, statistiche e variabili nella pianificazione di un progetto. A mano a mano che questa distruzione cresce, si cercano argomenti per giustificare e chiedere maggiori sacrifici, nascondendosi dietro l’arcinota frase: “non c’è altra soluzione”; un buon pretesto per narcotizzare le loro coscienze. Questa bassezza spirituale ed etica non sopravviverebbe senza l’appoggio di quelli che soffrono di un’altra antica malattia del cuore: l’incapacità di sentirsi in colpa. Gli arrampicatori ambiziosi che, dietro i loro diplomi internazionali e il loro linguaggio tecnico, per lo più ampiamente intercambiabile, mascherano il loro precario sapere e la loro quasi inesistente umanità.

Come accade a Zaccheo, anche noi possiamo accorgerci della nostra difficoltà a vivere secondo una levatura spirituale: sentire il peso del tempo sprecato, delle occasioni perse e sentirci dentro il rifiuto di fronte a questa impotenza di prendere in mano il nostro destino, imprigionati nelle nostre stesse contraddizioni. Certamente è cosa abituale, di fronte all’impotenza e ai limiti, essere tentati dalla facile risposta di delegare ad altri la rappresentatività e i nostri stessi interessi. Come se il bene comune fosse una scelta altrui, come se la politica, a sua volta, non fosse un’alta e delicata forma di esercitare la giustizia e la carità. Sguardo troppo corto per poter vedere il passaggio di Dio in mezzo a noi, per sentirci gratificati e degni di tanti doni, e per non aver scrupoli a farli valere senza rinunciare alla nostra vocazione storica di apertura non invasiva verso altri popoli fratelli.

Come noi, anche Zaccheo aveva questa vista corta. Ma succede il miracolo: il personaggio evangelico si leva dalla sua mediocrità e trova il punto alto su cui salire. Perché è dal dolore e dai nostri limiti che impariamo meglio a crescere e dai nostri mali scaturisce una domanda profonda: abbiamo sofferto abbastanza per deciderci a rompere vecchi schemi, per rinunciare ad atteggiamenti sciocchi così radicati e per sprigionare le nostre vere potenzialità? Non ci troviamo forse di fronte all’occasione storica di rivisitare antichi e radicati mali che non abbiamo mai cessato di ripetere e per lavorare insieme? C’è bisogno che altro sangue scorra lungo il fiume perché il nostro orgoglio ferito e fallimentare riconosca la sua sconfitta?

Zaccheo non scelse la rassegnazione di fronte alle sue difficoltà, non cedette la sua opportunità all’impotenza, corse avanti, cercò il luogo alto da dove veder meglio e si lasciò guardare dal Signore. Sì, lasciarsi guardare dal Signore, lasciarsi colpire dal dolore proprio e altrui; lasciare che l’insuccesso e la povertà ci tolgano i pregiudizi, le ideologie, le mode che rendono insensibili e, così, poter udire l’invito: «Zaccheo, scendi subito!». Questa è la seconda chiave di lettura di questo passo evangelico: Zaccheo risponde a un Gesù che lo invita a scendere. Scendere dalle sue autosufficienze, scendere dal personaggio inventato dalla sua ricchezza, scendere dall’inganno fondato sui propri poveri complessi. In realtà nessuna altezza spirituale, nessun progetto di grandi speranze, può diventare reale se non è costruito e sostenuto dal basso: dall’abbassamento dei propri interessi, dall’abbassamento sul lavoro paziente e quotidiano che annienta ogni superbia. Oggi, come non mai, in un momento in cui il pericolo della dissoluzione nazionale è alle porte, non possiamo farci trascinare dall’inerzia, non possiamo permettere che le nostre impotenze ci rendano inattivi o le minacce ci spaventino. Cerchiamo di metterci dove possiamo affrontare meglio lo sguardo di Dio nelle nostre coscienze, affratelliamoci guardandoci in faccia, riconoscendo i nostri limiti e le nostre possibilità. Non torniamo alla superbia della divisione centenaria tra gli interessi del centro che vive della speculazione monetaria e finanziaria, fine a se stessa, e il bisogno imperioso di stimolare e promuove- re le regioni dell’interno condannate ora al ruolo di “curiosità turistiche”. E non ci spinga nemmeno la superbia dell’autoreferenzialità faziosa, il più crudele degli sport nazionali, secondo la quale, invece di arricchirsi nel confronto delle differenze, la re- gola d’oro consiste nel distruggere implacabilmente anche la migliore delle proposte e dei successi degli avversari. Che non ci sbarrino la strada le intransigenze calcolatrici (in nome di coe-renze che non sono tali). Non continuiamo a rivoltarci nel triste spettacolo di quelli che non sanno più come mentire e contraddirsi per mantenere i propri privilegi e soddisfare la propria rapace avidità, perdendo così le nostre occasioni storiche e chiudendoci in un vicolo senza uscita. Come Zaccheo dobbiamo avere il coraggio di ascoltare l’invito e scendere: abbassarsi sul lavoro paziente e costante, senza smanie di possesso ma con lo slancio della solidarietà.

Abbiamo vissuto molto di finzioni, credendo di appartenere al primo mondo, siamo stati attratti dal “vitello d’oro” della stabilità consumista e folleggiante di alcuni, a costo dell’impoverimento di milioni. Quando oscure complicità interne ed estere si trasformano in un coacervo di atteggiamenti irresponsabili che non esitano a spingere le cose al limite senza badare ai danni: affari sospetti, transazioni senza controllo, compromessi settoriali e di parte che impediscono un intervento sovrano, attività di disinformazione che confondono, destabilizzano e spingono verso il caos; quando accade questo, allora serve a poco la tentazione illusoria di esigere capri espiatori sull’altare della presunta rinascita di una classe migliore, pura e magica… Sarebbe andare in- contro a un’altra illusione. Dobbiamo riconoscere con dolore che sia tra i nostri sia tra gli avversari ci sono molti Zaccheo, con diversi titoli e responsabilità; Zaccheo che si scambiano ruoli in uno scenario di cupidigia quasi autorevole, a volte con travesti- menti legittimi.

La cosa migliore è lasciare che lo Zaccheo che è dentro ciascuno di noi si lasci guardare dal Signore e accetti l’invito a scendere. Questo invito del Vangelo è memoria e cammino di speranza. Colui che cerca e si lascia raggiungere dal sublime fa spazio a una gioia nuova, a una possibilità di redenzione. E Zaccheo si redime, accoglie con gioia l’invito dell’unico che ci può riconciliare, Dio stesso. Accetta di sedersi alla tavola di tutti, a quella dell’amicizia sociale. Nessuno chiese a quel pubblicano di esse- re ciò che non poteva essere, ma semplicemente che scendesse dalla pianta. Gli si chiede di attenersi alla legge di essere uno in più, di essere fratello e compatriota, di osservare la legge.

Questo dobbiamo ottenere: far osservare la legge, perché il nostro sistema funzioni, perché il banchetto al quale siamo invitati nel Vangelo sia quel luogo dell’incontro e della convivenza, del lavoro e della celebrazione che vogliamo, e non un “caffè alla moda” per gli interessi “capricciosi” del mondo; di quelli che vengono, consumano e se ne vanno. La legge è la condizione indispensabile della giustizia, della solidarietà e della politica, ed essa fa in modo che, scendendo dalla pianta, non cadiamo nella tentazione della violenza, del caos, della vendetta. Accogliamo il dolore di tanto sangue versato inutilmente durante la nostra sto- ria. Apriamo gli occhi in tempo: per le nostre strade si sta scate- nando una guerra sorda, la peggiore di tutte, quella di nemici che convivono e non si vedono tra loro, perché i loro interessi si intrecciano manipolati da sordide organizzazioni delinquenziali o peggio, come solo Dio sa, approfittando dell’abbandono sociale, del decadimento dell’autorità, del vuoto legale e dell’impunità.

Non è il momento di avere paura e vergogna di noi stessi, tutti siamo un po’ Zaccheo e tutti abbiamo enormi talenti e valori. Guardiamo con nostalgia le ricchezze naturali, il lustro di tanti compatrioti dispersi, la silenziosa e incredibile resistenza di un popolo umile che difende le sue tradizioni e non vuole rinnega- re la propria fede e le proprie convinzioni, che lotta contro la rovina. Ora o mai più, cerchiamo la rifondazione del nostro vincolo sociale, come tante volte l’abbiamo invocata con tutta la società e, come questo pubblicano pentito e felice, sciogliamo le briglie alla nostra grandezza: la grandezza di dare e di darci. La condizione indispensabile è la rinuncia a voler avere tutta la ragione; a mantenere i privilegi, a volere una vita e un reddito facili… a continuare ad essere sciocchi, meschini nell’animo. Come nell’invito evangelico, in molte occasioni ci siamo lasciati visita- re da Dio; e quando questo è accaduto, da noi sono scaturite cose grandi e sublimi. C’è in tutta la società un desiderio già in atto, ineludibile, di partecipare e controllare la propria rappresentanza, come accadde quel giorno che commemoriamo oggi, nel quale il comune si costituì in Cabildo.

Oltre al salire per vedere Gesù e poi scendere per accogliere il suo invito, nel testo evangelico c’è una terza chiave di lettura: il dare, il darsi, riparando il male commesso. Zaccheo decide di restituire il maltolto e di condividere. Come lo Zaccheo convertito, il nostro popolo sente il desiderio di «dare la metà» e di «restituire quattro volte tanto». Vuole riscattare dal profondo del suo animo il lavoro e la solidarietà generosa, la lotta ugualitaria e la conquista sociale, la creatività e la celebrazione. Sappiamo bene che questo popolo potrà accettare umiliazioni, ma non la menzogna di essere giudicato colpevole di non riconoscere l’esclusione di venti milioni di fratelli che hanno fame e la cui dignità viene calpestata. Se Zaccheo, prima di lasciarsi guardare da Gesù, studiava il modo per rovinare sempre più i suoi debitori, non poteva certo reclamare presunti obblighi etici, né castighi esemplari. Un convertito deve ammettere le sue truffe usuraie e restituire ciò che ha rubato. Contempliamo il finale della storia: ora Zaccheo, entrato nella legalità, vive senza complessi né simulazioni davanti ai suoi fratelli, seduto accanto al Signore, e lascia fluire fiducioso e perseverante le sue iniziative, capace di ascoltare e dialogare, e soprattutto di cedere e condividere con gioia profonda.

La storia ci dice che molti popoli si sollevarono dalle loro rovine e abbandonarono, come Zaccheo, le proprie bassezze. Bisogna dare spazio al tempo e alla costanza organizzatrice e creatrice, ricorrere meno al reclamo sterile, alle illusioni e alle promesse e dedicarci all’azione ferma e perseverante. Su questa strada fiorisce la speranza, quella speranza che non delude perché è dono di Dio al cuore del nostro popolo. Oggi, più che mai, la speranza ci convoca. Essa ci ispira e ci dà forze per sollevarci e lasciarci guardare da Dio, per poi abbassarci all’umiltà del servizio e per dare dando noi stessi. A momenti sogniamo una con- vocazione, la aspettiamo magica e affascinante. Il cammino è più semplice: dobbiamo solo tornare al Vangelo, lasciarci guardare come Zaccheo, ascoltare l’invito all’impegno comune, non nascondere i nostri limiti ma accettare la gioia di condividere, contro la smania di accaparrare. E allora sì che sentiremo, rivolta al nostro paese, la parola del Signore: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza… Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (Lc 19,10).

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