Non profit

La grande partita dell’Africa

editoriale

di Giuseppe Frangi

L’immagine che avete visto in copertina risale a sei anni fa. Era il 15 maggio del 2004: per la prima volta un Paese africano si vedeva assegnare la Coppa del Mondo di calcio, cioè l’evento sportivo più seguito del pianeta. Al quartiere generale della Fifa di Zurigo era presente l’uomo simbolo di questa “vittoria”: Nelson Mandela. Come accade in talune straordinarie circostanze, le foto sembrano “parlare”: il sorriso liberatorio di quest’uomo di 86 anni (oggi ne ha 92), il modo con cui stringe la Coppa che l’11 luglio verrà assegnata alla squadra vincitrice, raccontano di un qualcosa molto aldilà del calcio. Raccontano di un percorso iniziato l’11 febbraio 1990, quando dal cancello del penitenziario di Victor Vester, vicino a Città del Capo, usciva dopo 27 anni il detenuto politico numero 46664: Nelson Mandela, detto “Madiba”, come viene familiarmente chiamato con riferimento al suo clan. Mandela era stato liberato da quello che sarebbe stato l’ultimo presidente bianco del Sud Africa, quel Frederik Willem de Klerk con cui nel 1993 condivise il Nobel per la pace. Appena uscito, il leader prigioniero lanciò il suo messaggio al Paese, racchiuso in due parole chiave che avevano colto di sorpresa tutti: «Riconciliazione e unità». Nacque così il cammino di quella Commissione per la verità e la riconciliazione che rappresenta un’esperienza straordinaria di uscita da un conflitto: capire ciò che era successo, senza innescare azioni di vendetta; indagare sul passato ma soprattutto costruire il futuro. Come ha ricordato in un libro Russell Ally, docente universitario a Città del Capo, vicepresidente della Commissione, «vedere il nostro leader uscire dopo tanti anni di prigione senza tracce di amarezza fece impressione». Per quanto spiazzante, fu un atteggiamento che innescò una dinamica positiva, capace di non tenere le persone ostaggio del passato. È interessante riascoltare, con le parole di Ally, il meccanismo su cui si regolava il lavoro della Commissione: «Il nostro primo compito era stato quello di trovare le vittime e farne un lungo elenco. Poi di offrire loro un risarcimento: c’era chi voleva un medico e chi una strada intitolata al figlio. Quindi è venuto anche il momento di dare la parola al nemico e di scoprire i delitti di noi che abbiamo vinto, di dare spazio alla diversità delle memorie e alla forza di raccontare. Infine, l’approdo: libertà in cambio di verità». Una lezione di civiltà per il mondo intero.
Quello che è accaduto dopo questa esperienza di uscita dal conflitto non è coinciso con le attese, come ricorda nella sua lucida e drammatica analisi sul Sud Africa di oggi Giulio Albanese (a pagina 7). Oggi quello che dovrebbe essere il Paese traino della nuova Africa, è in realtà preda di problemi e di ingiustizie che ne minano seriamente il futuro, nonostante la brillantissima vetrina che – tutti ci auguriamo – il Mondiale rappresenterà. Il Mondiale non sarà il toccasana dei suoi grandi problemi, ma ha certamente il pregio di avvicinare l’Africa al resto del mondo. Di interrompere quella deriva verso cui le dinamiche della globalizzazione hanno spinto il continente nero. Per questo Mandela, nonostante tutto, aveva ragione di sorridere quel giorno di sei anni fa.


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