Welfare
La grande incompiuta in cerca di rilancio
Il punto sulla legge 328: che fine ha fatto la sussidiarietà orizzontale? A livello locale ha riguardato pratiche di esternalizzazione. La coprogettazione, invece, è rimasta sulla carta
di Luca Zanfei
Ha un significato particolare l?annuncio del ministro Ferrero di voler invitare anche il terzo settore al tavolo per il welfare. Il ministro rilancia il tema della partecipazione progettuale, finora quasi del tutto affossata dall?applicazione a livello locale della 328. Una legge che, al tempo della sua emanazione più di sette anni fa, doveva rivoluzionare il sistema delle politiche sociali, nell?ottica della sussidiarietà orizzontale e della co-progettazione pubblico-privato dei servizi sociali. Ma che, ad oggi, appare più che altro una grande occasione mancata.
Il quadro
Un dato su tutti. Dal 2000, anno di promulgazione della legge, quasi tutte le Regioni hanno recepito le direttive nazionali, con apposite normative, e predisposto tavoli di concertazione con le parti sociali. Ma meno del 10% ha coinvolto il terzo settore nella programmazione e nella definizione dei servizi, soprattutto per quanto riguarda i Piani di Zona. Nella maggioranza dei casi, invece, ha prevalso la logica delle esternalizzazioni e degli affidamenti diretti. In poche parole, il terzo settore e la cooperazione hanno guadagnato in convenzioni, ma non in rappresentanza.
La sensazione è che, al posto di un allargamento della sfera del potere decisionale, si sia optato per una semplice delega delle responsabilità gestionali del servizio. Una scelta che, secondo Luca Fazzi, curatore del report di monitoraggio sull?applicazione della 328 per l?università di Trento e per il Formez, ha radici profonde nella stessa cultura che ha ispirato la riforma. «L?ottica è stata quella di lavorare solamente alla riduzione delle inefficienze produttive», spiega. «Così si è promossa una governance del welfare dall?alto con una visione espressamente pubblica. Le pratiche di coinvolgimento sono state svuotate di significato dalla legislazione nazionale e di conseguenza non regolate dalle Regioni, che erano del tutto impreparate a trasferire poteri decisionali. Il risultato è una partecipazione del tutto virtuale da parte del terzo settore, considerato mero esecutore del servizio». Così anche nei modelli ritenuti più innovativi (vedi box accanto), pur mantenendo un ruolo predominante nella gestione, la cooperazione è spesso esclusa dai tavoli di programmazione.
Deficit di rappresentanza
Un graduale allontanamento dalle responsabilità decisionali, che sconta anche un deficit di rappresentanza della cooperazione e del privato sociale. Del resto gli organismi a ciò deputati, il Forum del terzo settore e l?Osservatorio sulla 328, finora non sembrano aver svolto il proprio ruolo a pieno. Lo stesso Osservatorio, nato un anno fa con compiti di monitoraggio e formulazione di proposte innovative, è ancora fermo ai box per mancanza di fondi e persino spazi fisici. Una situazione paradossale che «evidenzia una mancanza seria di progettualità», spiega Flaviano Zandonai, del Centro studi Cgm. «La cooperazione e il terzo settore si sono presentati spesso frammentati negli interessi e nelle istanze da rappresentare. In alcune zone è stata la stessa amministrazione a eleggere rappresentanti del privato sociale per sopperire alle mancanze del Forum, incapace di avere una linea condivisa».
Ammette le difficoltà Maria Guidotti, portavoce del Forum e firmataria con Cgil del protocollo di intesa per l?Osservatorio sulla 328: «Il vero problema riguarda il particolarismo di certe visioni spesso ideologiche del proprio ruolo; ma la cosa ancor più grave è che si è gradualmente perso l?apporto del cittadino come partecipazione diretta alle linee programmatiche delle stesse cooperative».
Federalismo incompiuto
Per fortuna non è così ovunque. Dove il rapporto tra pubblico, privato e cittadino è più diretto, come i piccoli comuni e alcuni distretti zonali, il modello delle politiche sembra orientato al coinvolgimento decisionale di tutti i soggetti interessati. «Mentre le Regioni ragionano ancora in termini statalisti o di mercato, in alcune amministrazioni si stanno sperimentando veri e propri strumenti di co-progettazione con la cooperazione, come le Carte di servizi», spiega Zandonai. Esempi che però non attenuano più di tanto la difficoltà di dare completa attuazione alla riforma.
Difficoltà dovuta principalmente alla forte frammentarietà legislativa ed esperienziale delle Regioni, che devono spesso far fronte ad «un graduale ritiro dello Stato centrale, giustificato dall?applicazione arbitraria del titolo V», spiega Fazzi. «L?iter di definizione dei Liveas (i livelli essenziali delle prestazioni), di competenza dello Stato centrale, non si è mai avviato e gli stessi finanziamenti degli interventi sono stati esigui». Così le responsabilità sono cadute direttamente sulle Regioni, che hanno incominciato ad abbozzare una prima definizione dei livelli essenziali di assistenza e finanziano per oltre il 70% il sistema dei servizi. Il risultato? Un forte squilibrio tra Nord e Sud del Paese.
Parola d?ordine: Liveas
La soluzione sembra allora quella di partire proprio dai Liveas, richiesti a gran voce da tutto il mondo delle cooperazione sociale e annunciati dallo stesso ministro Ferrero. «Ma attenzione, «i Liveas a livello nazionale non si faranno mai, perché i bisogni sono troppo parcellizzati», ammonisce Lorenza Violini, del comitato scientifico della Fondazione per la Sussidiarietà. «La spinta deve venire dal basso e dovranno essere proprio le Regioni a fare da filtro tra le varie istanze territoriali. Sarà poi compito dello Stato fare la sintesi e definire standard flessibili. Ma tutto questo non può che partire dalla definizione di stanziamenti adeguati. Per evitare un?Italia a più velocità i finanziamenti devono provenire dallo Stato centrale; compito degli enti locali e delle parti sociali è decidere sull?impiego di tali fondi».
Insomma, l?apertura del ministro rappresenta un passo avanti, ma «l?importante sarà lavorare sugli aspetti culturali», dice Achille Passoni, segretario confederale Cgil e altro firmatario per l?Osservatorio. «La pubblica amministrazione, ma anche il terzo settore non sono ancora del tutto preparati a modalità progettuali di questo genere. È un problema di competenze. Dove si sono confrontate persone preparate i Piani di Zona e la coprogettazione ha funzionato. Bisogna partire da quelle esperienze».
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