Cultura

La grande guerra così lontana ma così vicina

Apre al Mart di Rovereto l’attesa mostra dedicata per il centenario del primo conflitto mondiale. Una mostra coraggiosa e poco convenzionale. Cristiana Collu, direttrice del museo, spiega tutte la ragioni per cui val la pena vederla

di Giuseppe Frangi

Si apre domani a Rovereto la grande mostra per il centenario dell Prima Guerra Mondiale. Una mostra poco convenzionale, anche se pensata per un pubblico larghissimo. Poco convenzionale a cominciare dal titolo preso da un verso di Bertoldt Brecht: «La prossima guerra non sarà la prima». La direttrice del Mart, Cristiana Collu, ha voluto fortemente questo progetto, che non fosse celebrativo e che non riguardasse solo una guerra, ma avesse come sfondo tutte le guerre. In questa intervista rilasciata a Vita mensile, aveva anticipato il suo progetto.

Lei è donna. Per di più viene da lontano e da una terra, la Sardegna, che con la guerra, per fortuna, ha avuto poco a che vedere. Non si sente fuori ruolo?
Bisogna sempre sapersi misurare con le attese che ci circondano. Quando sono arrivata avevo in testa di fare una grande mostra sulla notte, di cui la Guerra sarebbe stato un importante capitolo. Poi, ascoltando tutte queste persone che qui la guerra l’hanno studiata, esplorata, ne hanno custodito le memorie ho capito che si doveva percorrere un’altra strada. E che il museo doveva essere il collettore di tutte le istanze, perché il racconto della guerra diventasse qualcosa di corale. Per questo abbiamo messo insieme tutte le istituzioni del territorio che a diverso titolo hanno a che fare con la memoria della Guerra e abbiamo lavorato in squadra. Poi, al museo spetta il compito affascinante e delicato di mettere in scena il racconto che ne è uscito.

Sin dal titolo, si capisce che non sarà una rappresentazione scontata…
Non lo è e non poteva esserlo. Avremmo tradito la nostra funzione. Chiediamo alla storia una precisione rispetto a come sono andate le cose, ma poi resta aperta la questione del senso di quello che è accaduto, della verità che a volte può essere crudele, con il rischio di “pornografia delle immagini” che ogni racconto della guerra inevitabilmente porta con sé. Bisognava saper trasmettere un’empatia senza cedere al sentimentalismo. Ci voleva un’empatia consapevole, e per fortuna la poesia ci è venuta in soccorso.

Quella di Brecht, innanzitutto. Che cosa vuole indicare con quel titolo, “La guerra che verrà non sarà la prima”?
È un titolo che per me è un manifesto. Non ci si può semplicemente indignare davanti alla guerra, rifugiarsi nella retorica del “mai più”. A questo proposito cito sempre Madre Teresa che ripeteva: se fate qualcosa contro la guerra, non chiamatemi. Se organizzate qualcosa a favore della pace, invitatemi. Questo è stato il punto fondamentale del lavoro fatto: non posizionare il racconto dalla parte dello sdegno. Quel titolo poi annuncia un ambito cronologico che è ben più ampio di quello della Grande Guerra. Affonda nella storia e nella stessa identità umana, sino a quel primo conflitto che vide l’uomo opporsi a Dio. È il conflitto che ha aperto la strada a tutti gli altri, la stessa psicoanalisi ci dice che la nostra struttura umana è segnata da quel conflitto, poi governato con i contratti sociali. Non si può raccontare una guerra pensando che sia finita lì. È così che la memoria della Siria ha fatto breccia e abbiamo allargato l’ambito cronologico sino al presente.

Dalla Guerra alle guerre, quindi?
In un certo senso sì, come ampiezza di sguardo. Anche se la concretezza del racconto si concentra sul conflitto mondiale. E non prendiamo in considerazione gli apparati, ma raccontiamo il soldato, le donne, i bambini, i medici, i pazzi, cioè le persone che la guerra l’hanno vissuta sul loro corpo. Parlano i documenti, i reperti, quel fiume di cartoline dove il messaggio era innanzitutto la cartolina stessa, segnale che si era ancora in vita. Sono oggetti che restituiscono l’immediatezza del vissuto, come quelle sovra scarpe di paglia che ci sono state recentemente restituite dall’arretramento di un ghiacciaio. Eppure non possiamo limitarci a questo, ci vuole un piano di comprensione più profondo, che tocchi anche la nostra consapevolezza oggi.

In che senso?
Si deve capire che la guerra è una dismisura, un qualcosa davanti alla quale qualsiasi racconto risulta assolutamente parziale. La guerra è l’appuntamento che si deve mancare e nella sua sostanza è un qualcosa che non si può neanche guardare. D’altra parte questa disumanità che sta alla radice della guerra è parte dell’umano, del suo mistero, di quell’abisso di cui è costituito. L’umanità dentro di sé custodisce anche il suo contrario. Per questo la strada da percorrere è quella di mettere in campo una cultura del limite, perché la salvezza sta nel limite che ci si sa dare. Anche nel racconto della guerra, evitando le scabrosità e aiutandosi sempre con la poesia.

Poesia a partire dalla guerra ne è stata scritta tanta. Sembra quasi una contraddizione…
Invece non lo è. Bisogna calarsi nel vissuto della guerra per capirlo. Mi sono trovata ad immaginare un soldato, sul Carso, che di giorno ha ucciso suo malgrado e che la sera si trova invece sotto un meraviglioso plenilunio. Impossibile che non scatti un momento di comunione con le cose. Ecco, la poesia serve a noi per capire c’è una possibilità che la guerra non esista, e che questa possibilità è dentro di noi. La mostra perciò si aprirà con Quasimodo, con il realismo crudele dell’Uomo del mio tempo, e si chiuderà con Ungaretti, con la malinconia della precarietà umana.

Lei in sostanza dice: lo sdegno per la guerra è retorico, perché c’è un livello di complicità che ci tocca tutti. È così?
È così. E credo che da una mostra che vuole essere sincera sia impossibile non uscirne con la ossa rotte. Ognuno di noi alla fine cerca la possibilità di un’assoluzione. Assoluzione rispetto a quell’accaduto, che non mi è estraneo, proprio per la natura di quell’umano di cui anch’io sono fatto. Il soldato che uccide, non lo fa semplicemente perché “si deve” ma perché in guerra “si può” uccidere; l’uomo che stupra perché in guerra tutto diventa terreno di conquista, magari prima era un padre laborioso ed esemplare. La sacralità della vita, come scrisse Giovanni Papini, va in mille pezzi. Per questo c’è bisogno di un luogo in cui alberghi la speranza. I momenti di poesia aiutano a trovare spazi per un’assoluzione.

La memoria della guerra è sempre vissuta sulla celebrazione del sacrificio più che sulla crudeltà. Anche questa non è una strada verso un’assoluzione?
Sì, vale in particolare per un territorio come questo che l’ha vissuta sulla propria pelle e che è denso di segni e di luoghi che ne fanno continuamente memoria. Tuttavia va evitata ogni retorica, e capire che è grande soprattutto il gesto di uno che salva un altro uomo, nella carneficina di un conflitto. Comunque alla fine anche il sacrificio non basta, perché quello che ciascuno cerca è la luce al fondo della radura, è la possibilità di uscire da quel buio della mente che la guerra rappresenta e di poter mettere ordine nelle cose.

È una bella scommessa quella che lei fa. Quanto la seguirà il territorio?
Questa è una responsabilità che il museo si prende, perché è il suo compito: prendersi carico di un tema e spostarlo un po’ più in là. Se non si fanno tentativi così, alla fine non si capisce un museo cosa ci stia a fare. Ad esempio, quando si è trattato di pensare all’architetto che organizzasse questo grande percorso lungo un chilometro, con mille oggetti, ci siamo accorti che non lo potevamo trovare. Perché un architetto avrebbe dovuto per forza concepire una sovrastruttura che incasellasse questa materia incandescente. Così ci abbiamo rinunciato e ci siamo rivolti ad un grande designer, Martin Guixé, e con lui abbiamo concepito un percorso del tutto aritmico. Lui addirittura lo definisce efficacemente “isterico”, perché è l’argomento stesso a dettare la forma. E tutto senza ricorrere alla scorciatoia di effetti speciali.
 
Ma il Mart è pur sempre un museo. E l’arte che ruolo gioca nel racconto della guerra?

Storicamente è stata ambigua, basti pensare al ruolo avuto dal futurismo. Ma qui l’arte è chiamata ad un’altra funzione, quella di mandare in fibrillazione i cuori. Deve saper consolare non per quello che so, ma per quello che sono. Il conoscere i fattori di una guerra infatti non è sufficiente a ritenerla estranea a noi. La sua pervasività alla fine ci travolge.

Sembra di cogliere anche un’idea non consueta di museo nelle sue parole…
In genere si pensa troppo al pubblico degli esperti, cercando un consenso di cui alla fine si resta ostaggi. Invece bisogna imparare a non preoccuparsene, e pensare al pubblico normale e al suo diritto o alla sua domanda di fare un’esperienza coprendo un percorso che racconta la guerra. È un cambio di prospettiva che fa essere più liberi e che soprattutto permette di dare vita ad un racconto e non ad un’operazione di chirurgia specialistica sulla guerra e la sua storia
 

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