Welfare
La Giustizia riparativa non resta in carcere
A Tempio Pausania in Sardegna è in costruzione un percorso di comunità riparativa. Una esperienza straordinaria che chiude la nostra serie di quattro focus su uno degli strumenti cardine della riforma Cartabia (nelle correlate i tre precedenti approfondimenti)
di Luca Cereda
Il filo rosso che ha legato le esperienze riparative che abbiamo raccontato in carcere tra rei e vittime, anche di reati violenti come quelli di mafia o del terrorismo, ha sempre avuto come punto di partenza e d’arrivo l’impulso il riconoscimento dell’umanità di fondo che accomuna vittime e rei. Il passaggio successivo è quello di aprire sempre più le porte della riaparazione al terzo pilastro della giustizia riparativa: la società civile. La giustizia riparativa però è anche – e forse sopratutto – una visione, un orizzonte culturale che immagina qualcosa che ancora non c’è: un mondo diverso, un mondo contrassegnato da valori che non riscontriamo oggi. La giustizia riparativa infatti è anche un insieme di pratiche che è necessario che trovino terreno fertile anche nella società in cui viviamo mirando al benessere di tutti.
La rivoluzione della giustizia riparativa: uscire dal carcere, aprirsi alla collettività
Si è detto che la giustizia riparativa, prima ancora di essere un percorso che porta a far incontrare vittime e rei, è un orizzonte culturale che appoggia su pilastri delicati come: il rispetto, l’equità, l’inclusione, la partecipazione e lo stare insieme anche se il vivere insieme in una comunità significa scontrarci e strappare legami. «L’obiettivo della giustizia riparativa è quello di rispondere all’esigenza di restituire attenzione alle dimensioni umane, personali e sociali che investono il crimine. Dimensioni senza le quali la pena altro non sarebbe che un’afflizione per il condannato e un serbatoio che fa eco alla rabbia sociale verso queste persone», spiega Patrizia Patrizi, docente all’Università di Sassari di psicologia sociale e giuridica e membro del board del Forum europeo per la giustizia riparativa. La rivoluzione profonda che introduce la giustizia riparativa risiede nel fatto che le vittime di un reato non si risarciscono con la punizione del reo e neppure la società: dalla punizione non si riceve la riparazione della dignità.
Il primo esempio di comunità riparativa in Italia
Si tratta di una vera e propria sperimentazione di comunità riparativa quella avvenuta nella città sarda di Tempio Pausania. Il progetto nasce dalla rilevazione di un conflitto sociale. «Nel 2011 apre, a Nuchis, un nuovo istituto penitenziario che, a febbraio 2012, diventa di massima sicurezza: la casa di reclusione “Paolo Pittalis”. Questo evento ha generato una frattura all’interno della comunità», illustra la professoressa Patrizi. L’istituto ha sempre ospitato condannati per reati molto gravi come l’associazione di stampo mafioso con la maggior parte dei condannati reclusi con anche più ergastoli. «Subito la comunità di Tempio Pausania ha iniziato a temere infiltrazioni sul territorio delle famiglie di questi criminali, anche se dal canto loro i detenuti soffrono come tutti per la distanza dai loro affetti». È allora che l’università, l’istituto penitenziario, il consiglio comunale, le associazioni locali hanno allora iniziato a lavorare insieme per costruire un nuovo rapporto fra carcere e comunità. Ma non solo. «Il progetto avviato a Nuchis si è posto subito l’obiettivo di sensibilizzare l’intera comunità rispetto a temi riparativi come la pace sociale, la solidarietà, l’inclusione e la coesione sociale come strumenti di benessere per tutte le parti coinvolte», continua la professoressa Patrizi.
Ad oggi – anche se con rallentamenti dovuti a cambi al vertice della guida del penitenziario – vengono portate avanti delle pratiche di giustizia riparativa che coinvolgono il carcere, ma sopratutto l’intera cittadinanza : l’obiettivo è quello di costruire una comunità sociale ad approccio riparativo sul modello delle “restorative city” anglosassoni di Hull e Leeds, rivisitato e riorganizzato in funzione del tessuto culturale, sociale ed economico italiano e sardo. Per questo tenere e coltivare i legami con la direzione della casa di reclusione di Nuchis, con la magistratura di sorveglianza e l’amministrazione comunale, consentono di rendere solido e radicato il percorso di coinvolgimento della cittadinanza. «Il principale strumento di intervento è rappresentato dalle conferenze riparative: si tratta di una serie di incontri in cui le diverse parti del sistema si riuniscono – in disposizione circolare, così da poter interagire anche con lo sguardo – per individuare canali per lo sviluppo del senso di comunità e la costruzione di approcci pacifici per la risoluzione dei conflitti, non solo quelli potenzialmente a rilevanza penale. Incoraggiamo le persone a riflettere sul significato e le potenzialità di una comunità ad approccio relazionale. Le conferenze sono state aperte a tutta la comunità. Hanno partecipato giudici, volontari, educatori, terzo settore, amministratori, forze dell'ordine, docenti», spiega Patrizi. Un modo per alimentare questa visione collettiva che è la costruzione di una comunità riparativa, sono stati molti gli aperitivi riparativi organizzati per le vie di Tempio Pausania, dove anche il carcere si è aperto alla città e un magistrato di sorveglianza poteva essere al tavolo con un “suo” detenuto e con il salumiere della città.
Il principale strumento di intervento è rappresentato dalle conferenze riparative: si tratta di una serie di incontri in cui le diverse parti del sistema si riuniscono in disposizione circolare, così da poter interagire anche con lo sguardo
Piantare semi riparativi nei ragazzi e nelle scuole
La costruzione di una città riparativa è un progetto a lungo termine. «Necessita molti passaggi che sono di condivisione, di conoscenza diffusa, di adesione libera e di coinvolgimento nei percorsi riparativi proposti. Un comunità per essere riparativa infatti chiede un’attenzione alle persone che, quotidianamente, si interrogano sui modi migliori per giungere all’obiettivo verso cui tutte e tutti tendiamo: vivere una città sicura, intesa come luogo di relazioni basate sulla fiducia, sulla reciprocità, sull’inclusione e la coesione dei suoi sistemi e di tutte le persone che li compongono», illustra la professoressa Patrizi. Significa quindi agire e interagire nel rispetto reciproco, e giungere alla consapevolezza che star bene insieme è responsabilità di tutte e di tutti. Il conflitto può generarsi, inevitabilmente, ma “conviene” imparare a gestirlo in modo che da quell’attrito si possa uscire nel modo migliore possibile per tutte le parti in causa, nessuna esclusa. Ecco l’importanza del progressivo coinvolgimento delle scuole, con esperienze di messa in guardia da pregiudizi e stereotipi vissute dagli studenti. La loro partecipazione alle conferenze riparative in carcere (foto), il flash mob del 2016 che ha coinvolto l’intera città, fino all’incontro, avvenuto con un ergastolano di Nuchis, Cosimo Rega, che attraverso percorsi riparativi ha cambiato il suo retroterra valoriale da camorrista, fino a partecipare ai dibattiti sulla riparazione del danno con gli studenti.
L’orizzonte ultimo: che le comunità siano riparative di se stesse
«Sono state tappe davvero significative per l’accrescimento di quella consapevolezza sociale che sta alla base della cittadinanza attiva e della comunità riparativa: ma necessitano di ulteriori sforzi, bisogna lavorare con tutti i cittadini, soprattutto quelli che non sono ancora stati sensibilizzati rispetto alla giustizia riparativa», analizza Patrizi.
Lo sforzo che i progetti sardi invitano a compiere orientano l’azione sociale, non solo della vittima e del reo, in una direzione che non può essere quella dell’odio perché con il tempo, anche i cittadini di Tempio hanno capito che la prigione dell’odio verso i detenuti del carcere di massima sicurezza consuma la vita della comunità. Senza restituirle nulla. L’orizzonte ultimo, sociale e culturale, dev’essere quello che ogni comunità diventi riparativa di se stessa.
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