La giungla dell’azzardo/2: i videopoker non esistono, ma la storia è sempre quella

di Marco Dotti

Con l’approssimazione che sempre più li contraddistingue, giornali & giornalisti mainstream parlano di videopoker. Ma i videopoker, almeno in Italia, sono fuori legge dal 2004, dopo che una modifica al Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (il cosiddetto TULPS) ha stabilito che si considerano «apparecchi idonei per il gioco lecito» quelli «dotati di attestato di conformità  alle disposizioni vigenti rilasciato dal Ministero dell’economia e delle finanze», ma che «in ogni caso tali apparecchi non possono riprodurre il gioco del poker o comunque le sue regole fondamentali». 

Eppure, proprio i giornali e giornalisti dovrebbero avere memoria. Almeno relativamente a quanto scritto e documentato dai loro colleghi. Per esempio?

Per esempio, nel febbraio del 1999, il Corriere della Sera, con un articolo a firma di Alberto Berticelli (“Bar, videopoker col trucco“) raccontava di un «tasto segreto» col quale i gestori potevano variare a loro piacimento le possibilità di vincita.

Leggiamo che cosa scriveva Berticelli nel 1999, a proposito di un’operazione di polizia – denominata “Bingo” – condotta nell’hinterland milanese: 

«Molti bar e tabaccherie di Milano e dell’ hinterland si erano trasformati in piccoli casinò. (…) I numeri del blitz sono impressionanti perché svelano che tipo di “business” giri attorno a questa attività . Vediamoli: 121 gestori di locali denunciati per concorso in gioco d’ azzardo, 141 esercizi pubblici controllati e 245 videopoker sequestrati. Ma la cosa che più ancora ha colpito i detective è che quasi tutte le macchinette mangiasoldi erano di proprietà di una ditta di Trezzano sul Naviglio, il cui proprietario è stato, a sua volta, denunciato a piede libero. L’ imprenditore aveva escogitato un meccanismo di tutto rispetto per far soldi: le macchinette erano date in comodato d’ uso (cioe’ gratuitamente) ai bar e alle tabaccherie. L’ incasso si divideva per due. Le cifre che giravano sono da capogiro. La polizia ha accertato che ogni macchinetta ingoiava qualcosa come un milione al giorno».

Pur con molto ritardo, fu anche a seguito di operazioni come questa che i videopoker finirono fuori legge. O meglio, fuori legge lo erano già, ma si insinuavano in un “interstizio”, servendosi della dizione: “non si erogano vincite in denaro, ma in buoni consumazione”. Anche se, puntualmente, accadeva il contrario. L’esplicito divieto per i videopoker ha però coinciso con l’introduzione altrettanto esplicita di apparecchiature  dichiarate “atte al gioco lecito” a soglia di accesso ancora più bassa: le slot machine.

Gli apparecchi di cui si parla nel TULPS sono le cosiddette slot machine, quelle che vediamo nei bar e che si distinguono dai vecchi “videopoker” per una fatto lampante e elementare: hanno una bassissima soglia di accesso, non prevedendo regole particolari per la giocata. Non si devono conoscere i colori, i valori, le combinazioni delle carte, ma solo allineare limoni, carote, fragole o cedri (sì, cedri) su  tre colonne.

Le slot machine (dette new slot) sono con le videolotterie (dette VLT) le uniche autorizzate dal nostro ordinamento a distribuire vincite in denaro.

Le new slot sono divenute oramai familiari a chiunque frequenti bar, tabaccherie, fermate dell’autobus, circoli ricreativi e si «attivano con l’introduzione di moneta metallica» (costo di 1 euro, durata minima della partita: 4 secondi, vincita massima consentita per ogni partita: 100 euro) e, stando al TULPS,  sarebbero apparecchi «nei quali insieme con l’elemento aleatorio sono presenti anche elementi di abilità, che consentono al giocatore la possibilità di scegliere, all’avvio o nel corso della partita, la propria strategia, selezionando appositamente le opzioni di gara ritenute più  favorevoli tra quelle proposte dal gioco».

Sempre stando al TULPS, in cosiddetto payout, ossia le vincite, «computate dall’apparecchio in modo non predeterminabile su un ciclo complessivo di non più di 140.000 partite, devono risultare non inferiori al 75 per cento delle somme giocate». Che sia davvero così non lo mettiamo in dubbio. Ma qualcosa non torna. 

 

 

 

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