Cultura

La Fortuna e il dio visibile del denaro

Da monito contro la "vanitas" a invito al rischio e al gioco, la fortuna attraversa i secoli, si secolarizza, seguendo le trasformazioni del suo significato. Un percorso di letture tra Peter Sloterdijk, Marc Chesney e altri

di Marco Dotti

Che cosa ne è stato della Fortuna? Si è nascosta? Fuggita? «…Les dieux s’en vont», si diceva un tempo ma quando se ne vanno – questo si è preferito tacerlo o non vederlo – dietro di loro lasciano tormenta e deserto. Oppure la fortuna si è disseminata, secolarizzata integrandosi e diventando tutt’uno con un mondo che vede le sue grazie e i suoi rischi sempre più racchiusi dentro la gabbia che – forse per mancanza di parole, forse per disperazione d’uomini o desolazione di teorie – ci si rassegna, comunque sottovoce, a chiamare “capitale”? Da quando la fortuna coincide con l’inevitabile, l’ineluttabile, la staticità e la gabbia? Da quando la salvezza è tornata a riaffiorare nella forma di un debito infinito con la sorte?

Scoprire la sorte del mondo

Alcune pagine del filosofo Peter Sloterdijk aiutano, quanto meno, a problematizzare. Peter Sloterdijk, che ha esposto la sua teoria della globalizzazione nella ben nota trilogia Sphären (ora edita integralmente da Cortina), ha insistito a lungo sulla moderna deriva di “fortuna”, in particolare in un capitolo del suo Im Weltinnenraum des Kapitals (2005; Il mondo dentro il capitale, Meltemi, Roma 2006), dedicato proprio alla “Fortuna e alla metafisica e chance” e, più recentemente, anche in Das Reich der Fortuna (Fundación Ortega Muñoz, 2013).

Hong Hong, Monopoly umano
Fotografia di MIKE CLARKE/AFP/Getty Images

Con lui ci si potrebbe chiedere se la questione della modernità – la modernità come questione che mette in discussione tutto –, nata da una scoperta radicale, non discenda da ben altro che l’aver capito che la Terra gira attorno al Sole. E, piuttosto, la modernità nascesse nell’istante stesso in cui un uomo ha intuito che il denaro, con le circumnavigazioni del globo, poteva girare senza freni per tutta la Terra?Un elemento dinamico, fluido che ben si sarebbe sposato con la scoperta che l’entità che chiamavamo e chiamiamo Terra è composta, per i suoi due terzi, da superfici coperte dall’acqua. Letteralmente, nella Terra come Waterworld, il denaro trova un ambiente umido congeniale alla sua circolazione e alla sua proliferazione.

E qui, per mare più che per terra, si allea con la fortuna dando vita a una nuova nobiltà, la nobiltà per sorte. Il viaggiatore diventa il cercatore di guadagni, e riunisce in sé, all’alba della nuova Europa, le figure del mago, del guerriero, del cavaliere, del navigatore e dell’alchimista. In sostanza, diventa in un rapido volgere di tempo un giocatore, laddove la caratteristica di questo giocatore – se e quando la sua impresa si sposa col lavoro, la tecnica, il calcolo – diventa quella di accrescere senza misura e oltre ogni limite un profitto, generando perdite che vanno al contempo oltre ogni limite: il capitale che incarna non vuole solo crescere, vuole correre senza freni. Ma, in questa corsa, proprio lui, il giocatore, si troverà prima sedotto, poi legato infine terribilmente indebitato-abbandonato.

La fortuna è cieca, dall’edizione di Raoul de Presles del De civitate dei di Agostino
Bibliothèque nationale de France, Dép. des Manuscrits, Français 172, fol. 150r.

Un gioco globale

“Scoperta”, ha spiegato Sloterdijk, «è parola chiave tanto epistemologica, quanto politica della Modernità». Ma se, davanti ai finanziatori del suo viaggio, sia per tranquillizzarli sui rischi, sia per un’intima convinzione che coincideva in fondo con la sua follia, Colombo poteva ancora affermare che la Terra fosse piccola, dopo quel viaggio non fu più possibile considerarla tale. E i rischi iniziarono a essere ripartiti e con le ripartizioni cominciarono a crescere sul grafico di quella tendenza non solo al profitto, ma all’extraprofitto che, oggi più che mai, fa problema per l’uomo e la Terra. Ma non per il denaro che lo innerva e la percorre.

“Scoperta” si trovò allora a indicare non un’impresa o una grandezza teoretica a sé, ma «un caso particolare del fenomeno degli investimenti». E l’investire divenne una forma di commercio col rischio, con una diffusione rapidissima e capillare di schemi commerciali e fiduciari, di bancali e lettere di credito, ma anche con un ritorno di parole e concetti desueti: scommessa, rischio, rassicurazione e, appunto, fortuna. Qualcosa che approssimava all’azzardo e mondanizzava la fortuna, incarnandola nelle pratiche di un tipo relativamente umano nuovo, almeno nella ricombinazione dei suoi elementi: l’imprenditore.

Questo tipo d’uomo, l’imprenditore – ma qualcuno ha proposto di chiamarlo produttore-debitore – «ha fatto esperienza del fatto che sbagliando s’impara, ma indebitandosi si impara di più».

ll dio visibile del denaro

Spingendo il ragionamento a fondo e a ritroso per tornare sul tema della fortuna e della sventura in tempi moderni e postmoderni, nel suo dialogo Thomas Macho, da poco pubblicato, con premessa di Luigino Bruni, per i tipi della EDB di Bologna (Il Dio visibile. Le radici religiose del nostro rapporto con il denaro. Conversazione con Manfred Osten, traduzione di Fabrizio Iodice, 144 pagine, 14 euro), Sloterdijk ricorda che «la cultura medievale si caratterizza essenzialmente per il fatto che gli uomini, sotto l’influsso di un cristianesimo arrivato al potere, dovevano rinunciare al loro intimo rapporto con Fortuna, quindi alla dea della fortuna».

Volendo dare una definizione, Sloterdijk si spinge a affermare che «fino a quando Fortuna ebbe una cattiva immagine si era nel Medioevo». Poi, si passa nel moderno. Nel concetto di Fortuna rientrava tutto quello che di casuale poteva esserci nella vita, laddove le due dimensioni di sorte e malasorte, Glück e Unglück, si trovavano uniti nell’unica concezione della medievale della fortuna. Una figura della vanitas da contrastare con esercizio stoico morale a imitatio del Cristo e dei santi. Quando da antagonista, la Fortuna diventa compagna e generatrice di possibilità di impresa, realizzazione, commercio, profitto, quando si passa dal combatterla all’assecondarla nel gioco della vita.

Si apre il Moderno in senso lato: «Allora – spiega Sloterdijck – è stato caricato quell’orologio che continua a battere fino a oggi».

Il moderno produttore-debitore ha fatto esperienza del fatto che sbagliando s’impara, ma indebitandosi si impara di più.

L’ora che esplode

Anche i giochi con la palla «ridiventano popolari all’inizio dell’epoca moderna, poiché la palla – non solo il globo sul quale viviamo, ma la palla con cui giochiamo – è il grande strumento con cui gli uomini moderni si allenano a entrare nella nuova situazione: dobbiamo giocare con quello che gioca con noi».

L’indebitamento è la precondizione per «creare da sé la sua fortuna e il suo futuro, entro il gioco delle possibilità, senza accettarli esclusivamente dalla mano di Dio». Sono questi devoti al Dio visibile dell’intrapresa a conferire al debito – non più vissuto come colpa e vizio morale lo statuto di rapporto che consente la permanente circolazione del denaro.

Correre rischi significa calcolarli, invocare la fortuna e riaprirsi alla sorte in un mondo globale che, sempre più, appare inscritto in un orizzonte di incertezze. È in questo orizzonte che, sulla soglia della modernità, riappare la dea romana della fortuna: «Ovunque la fortuna fa la sua comparsa sul palcoscenico del mondo come dea della globalizzazione par excellence: essa non solo si produce come acrobata eternamente ironica, in equilibrio sulla sfera, ma insegna in generale anche a vedere la vita come un gioco in cui i vincitori non hanno niente di cui vantarsi e i perdenti niente di cui lamentarsi».

Ovunque la fortuna fa la sua comparsa sul palcoscenico del mondo come dea della globalizzazione par excellence: essa non solo si produce come acrobata eternamente ironica, in equilibrio sulla sfera, ma insegna in generale anche a vedere la vita come un gioco in cui i vincitori non hanno niente di cui vantarsi e i perdenti niente di cui lamentarsi.

Rimedi dell’una e dell’altra fortuna di Francesco Petrarca
Bibliothèque nationale de France, Département des manuscrits, Français 224, fol. 9r [Fonte: gallica.bnf.fr]

D’altronde, già Boezio prima e Petrarca poi, nel suo De remediis utriusque fortune, avevano contribuito a porre le basi e le premesse per il ritorno di questa “ruota”. «Questa è la mia forza, questo è il gioco che sempre giochiamo. Giro veloce, muto le cose in basso con quelle in alto e quelle in alto trascino in basso», si legge d’altronde nel De philosophiae consolatione. Il Medioevo vi leggerà soprattutto un monito contro la vanitas, l’uomo nuovo del rischio vi coglie l’invito al gioco e al viaggio e non a caso associa ai tradizionali segni della Fortuna quello dei dadi, impresso su navi e galeoni. Sempre per una risonanza sottile, il lancio dei dadi era detto, in latino, cadentia, dalla cui radice si genera un concetto fondamentale per la riconfigurazione moderna della fortuna: chance.

Sappiamo che “dado” deriva dal latino datum, gettato, lanciato; parimenti, caso deriva da casus, ossia cadere. Il dado è ciò che cade, ma una linea arrischiata e sottile lo approssima a un’altra parola dal doppio taglio: debito. Come un debito, infatti, scade: i termini francesi chance (fortuna, occasione, più banalmente: opportunità) e échéance (scadenza, termine), derivano entrambi dal latino cadentia. L’antica grafia francese caanche – osservava Georges Bataille lo avvicina a excadere, da cui cadere, scadere, ma anche eccedere. Anche nel profitto. «Il cielo della Modernità», osserva Sloterdijk, «è il campo da gioco per il lancio di dadi del caso». A patto di dimenticarsi che, a Roma, Fortuna era soprattutto la dea degli schiavi che le si votavamo sperando in elemosine e nella «lunatica generosità dei ricchi».

Eterna sfortuna del capitale

Oggi, di questa lunatica generosità si ha traccia in quelle dinamiche che alcuni studiosi cominciano a definire nei tempi di ludocapitalismo e di gamblification. L’evocazione della fortuna nelle sorti dell’impresa è andata ben oltre le preoccupazioni formulate nel 1936 da John Maynard Keynes, in un celebre passaggio della Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta. «Quando l’accumulazione di capitale di un paese diventa il sottoprodotto delle attività di un casinò è probabile che le cose vadano male», scriveva Keynes. Ma le cose, commenta Marc Chesney, professore di finanza all’Università di Zurigo, autore del saggio Dalla Grande guerra alla crisi permanente. L’ascesa del potere dell’aristocrazia finanziaria e lo scacco alla democrazia (traduzione di Erica Dinale, Mimesis, pagine 110, euro 12), vanno anche peggio di quanto l’economista inglese potesse prevedere. Dalla mobilitazione imprenditoriale siamo passati alla mobilitazione totale della Grande Guerra e, oggi, dalla mobilitazione totale della guerra finanziaria permanente. Solo che la viviamo “come un gioco”.

Quando l’accumulazione di capitale di un paese diventa il sottoprodotto delle attività di un casinò è probabile che le cose vadano male

John Maynard Keynes

La finanza-casinò, a cui Chesney dedica un capitolo del suo lavoro, è una finanza che ha stravolto completamente il rapporto con i principi stessi dell’economia liberale e di mercato. Non solo è una finanza fuori controllo ma, dove un tempo il denaro circumnaviga il globo a bordo di caravelle, oggi, grazie all’accelerazione impressa al sistema dal trading automatizzato a alta frequenza (high frequency trading), lo può pure sorvolare in autonomia dall’elemento umano e a velocità che rasentano quelle della luce. E c’è, poi, l’elemento del debito: chi specula – fondi, grandi banche –indebita soggetti terzi, che spesso nulla o poco sanno della “gloriosa intrapresa” e vengono resi partecipi solo della sfortuna, non delle fortune di un investimento.

New York Stock Exchange
Spencer Platt/Getty Images

Il mutamento nel gambling è radicale: più che sulla temporalità dell’impresa, oggi è nell’istantaneità che si radica il rischio. Verrebbe da dire che, proprio qui, in questa sorta di estasi permanente del denaro, la fortuna scompare a tutto vantaggio di un capitalismo fatalistico che ci e si indebita, si potrebbe dire con Benjamin, nella speranza che a un certo punto, come uno zero sulla roulette – e lo zero ha sempre affascinato e ingannato i giocatori che lo credono numero fuori da ogni sistema – un qualche dio riappaia all’orizzonte e ci possa finalmente salvare.

Immagine in copertina: Sidney, Australia, 12 maggio 2005. Un Monopoly di 440metri quadrati. Fotografia di Ian Waldie/Getty Images.

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