Formazione

La formazione “da scaffale” finisce dietro alla lavagna

La formazione professionale troppe volte è progettata più per i bisogni di chi la propone che per formare figure professionali e competenze utili e richieste dal mondo del lavoro. È il caso della miriade di agenzie formative che operano a livello regionale proponendo corsi per drop-out spesso in modo del tutto indipendente dalle esigenze del mercato

di Giovanni Biondi

La formazione professionale troppe volte è progettata più per i bisogni di chi la propone che per formare figure professionali e competenze utili e richieste dal mondo del lavoro. È il caso della miriade di agenzie formative che operano a livello regionale proponendo corsi per drop-out spesso in modo del tutto indipendente dalle esigenze del mercato. In linea generale, per poter svolgere attività formative, occorre avere a disposizione oltre ad aule tradizionali, soprattutto laboratori attrezzati. Questo sia perché gli studenti ai quali si rivolgono queste proposte formative sono usciti spesso in malo modo da modelli scolastici trasmissivi, centrati sulla lezione frontale e sullo studio del libro di testo, sia perché per sviluppare competenze utili a un inserimento nel mondo del lavoro è necessario poter contare su laboratori attrezzati e utilizzare una didattica “immersiva” basata sull’imparare a fare. Si tratta, infatti, di recuperare studenti che in genere sono usciti dai tradizionali circuiti scolastici proprio manifestando un disagio nei confronti di una didattica frontale, trasmissiva che spesso risulta astratta e poco interessante. Certamente per agenzie formative spesso “improvvisate” è facile mettere in piedi corsi in aula che al massimo usano pseudo laboratori con poche “tecnologie”.

Estetisti, parrucchieri e perfino “addetti allo scaffale” non richiedono investimenti significativi e, in genere, finiscono per inflazionare un mercato già saturo. Immaginare che l’addetto allo scaffale possa essere una professione del futuro significa non avere nessuna idea di come sta rapidamente evolvendo l’organizzazione dei grandi centri commerciali e dei centri, come Amazon, che vendono in rete. Per gli scaffali di Amazon si muovono ormai i robot così come nei grandi magazzini sarà sempre più incisiva l’automazione di queste funzioni. Eppure molte Regioni approvano e continuano a finanziare i corsi sulla base di valutazioni formali della progettazione, indipendentemente dal successo occupazionale ottenuto dai percorsi formativi analoghi svolti negli anni precedenti. La richiesta del mercato del lavoro delle figure professionali proposte è auto- dichiarata da chi propone il corso stesso e quindi, in genere, non si basa su dati oggettivi e riscontrabili. Basta guardare la numerosità delle Agenzie formative che operano in ciascuna regione per rendersi conto che siamo di fronte spesso a iniziative improvvisate costruite per ottenere finanziamenti pubblici con poco sforzo.

Nello stesso tempo esistono però realtà che hanno una storia, ben radicate sul territorio, collegate ai bisogni delle imprese, con laboratori ben attrezzati costruiti negli anni che invece rispondono a bisogni reali ed ottengono risultati ottimi in termini di occupazione degli studenti che escono dai percorsi di formazione. È il caso delle scuole di formazione dei Salesiani che operano in varie parti d’Italia e che vantano una lunga tradizione in questo settore rispondendo ad una vera e propria emergenza sociale con competenza e serietà. Così come la Scuola di Formazione Professionale don Facibeni dell’Opera Madonnina del Grappa di Firenze dove tutti gli studenti usciti nel giugno scorso dai percorsi di formazione per idraulico ed elettricista hanno trovato lavoro.

A sostenere queste strutture che operano senza fini di lucro grazie anche al lavoro di tanti volontari, intervengono spesso anche le Fondazioni bancarie come nel caso di Firenze dove la Fondazione della Cassa di Risparmio ha sostenuto e sostiene queste scuole che operano in un settore delicatissimo di marginalità sociale. Senza questa sinergia tra Fondazioni, cooperative sociali e volontariato per molti ragazzi usciti dalla scuola non ci sarebbe futuro. Usciti dal circuito scolastico senza alcuna competenza sarebbero condannati a rimanere ai margini del mercato del lavoro. Per rispondere alle esigenze di questi ragazzi la didattica in queste scuole si svolge principalmente in laboratorio e si impara facendo, impegnati in attività concrete delle quali si riconoscono poi le basi teoriche. Un rapporto continuo tra teoria e pratica che modifica il modello scolastico tradizionale basato su una separazione innaturale che privilegia troppo spesso un apprendimento mnemonico. Un rapporto dell’Ocse uscito a gennaio di quest’anno evidenzia che in Italia il ricorso alla memorizzazione dei concetti è la pratica didattica che più si è incrementata in questi ultimi anni.

42% more students in science and 41% more students in maths had teachers using memorisation of rules, procedures and facts as a pedagogical technique (Measuring Innovation in Education, Ocse 2019). Tradotto: il 42% in più di studenti in scienze e il 41% in più di studenti in matematica hanno insegnanti che utilizzano la memorizzazione di regole, procedure e fatti come metodologia didattica.

Si tratta di un dato evidenziato all’interno di una ricerca comparativa condotta dall’Ocse sull’innovazione nella scuola. Un risultato che per l’Italia evidenzia un aspetto che non possiamo certamente definire innovativo.

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