La follia a volte si abbatte sulla folla, in un resort, nella piazza di una capitale, a volte si abbatte su un ragazzo, in un appartamento romano.
La follia è un gesto che non ti spieghi. Ci devi pensare. È un movimento inaspettato, come suggerisce la sua etimologia: mantice, soffietto, o anche un pallone pieno di vento che si muove qua e là, senza senso apparente. Altri sostengono che venga dall’antico tedesco voll, pieno, che sarebbe anche la radice di folla, e richiama a sua volta l’inglese full.
Pieno, ma pieno di cosa? Di follia stessa si direbbe o di idee che non comprendiamo, che cerchiamo di spiegare con un paradigma errato, partendo spesso da elementi incompleti, dalla voglia di fare interviste ai testimoni, plastici dell’appartamento, mappe virtuali della zona, lasciandoci guidare non dalla ragione, ma dal sentire dominante. Il peggiore dei metodi per capire le cose.
La maggior parte degli avvocati invoca la (semi)infermità, cioè follia, pur di alleviare la pena al cliente. Aumentando così il (ri)sentimento dominante.
Il kamikaze, l’assassino seriale o il padre esausto che uccide il figlio violento sono equiparati perché compiono tutti un “folle gesto” (chissà perché sempre prima l’aggettivo?). Ma in comune hanno ben poco, se non il fatto che, in fondo, noi non riusciamo a spiegarcelo del tutto, quel folle gesto.
Dunque folle è ciò che non comprendiamo.
Era folle pensare che la Terra si muovesse attorno al sole prima di Copernico. Erano considerati folli, o peggio indemoniati, gli schizofrenici, fino a 200 anni fa. Era folle chi prevedeva che un giorno ci sarebbe stato un computer in ogni casa. Sembrò folle perfino Guglielmo Marconi al Ministro delle Poste e Telegrafi, Pietro Lacava, che rispose alla sua richiesta di fondi per la ricerca sul telegrafo con la frase: «Alla Longara», che è il manicomio di Roma.
Dunque, attenzione: i folli esistono, ma non confondiamo la follia altrui con l’ignoranza nostra.
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