Volontariato

La fine delle ambiguit

Il provvedimento contiene alcuni principi innovativi, a prescindere dal successivo iter legislativo.

di Carlo Borzaga

La legge approvata dalla Camera in via definitiva lo scorso 30 maggio è una legge delega che diverrà operativa solo quando saranno approvati i decreti delegati e purché questi siano approvati entro la fine della legislatura. Altrimenti la legge decadrà. Tuttavia il provvedimento contiene alcuni principi innovativi, a prescindere dal successivo iter legislativo.

Oltre i limiti del Codice civile
Con la legge delega sull?impresa sociale si stabilisce per la prima volta un principio che supera il limite imposto dal Codice civile secondo cui l?impresa è tale solo se svolge un?attività speculativa. Il provvedimento riconosce, infatti, che l?impresa può anche essere un modo attraverso cui dei privati organizzano un?attività di produzione e scambio di beni e servizi non per perseguire, esclusivamente o in modo prevalente, uno scopo di lucro, ma anche e soprattutto per realizzare l?interesse generale della collettività. Trovo l?affermazione di questo principio un passaggio culturale di non poco conto. Un passaggio che era già stato avviato con la legge 381 del 1991 che ha istituito e regolato la cooperazione sociale definendola come un?impresa che deve perseguire finalità di interesse generale. In quel caso però il provvedimento normativo riprendeva il principio costituzionale del riconoscimento della funzione sociale della cooperazione, affermando che sociale può voler dire anche agire assumendo come finalità principale l?interesse generale della comunità. Con la legge delega sull?impresa sociale si fa un ulteriore, e speriamo definitivo, passo avanti, perché la possibilità di perseguire finalità di interesse generale è riconosciuto a tutte le forme di impresa a proprietà privata.
E proprio l?aver ribadito l?esclusiva natura privata dell?impresa sociale credo rappresenti l?altro punto di interesse. Il testo approvato dal Parlamento esclude infatti in maniera netta che le imprese sociali possano essere controllate da soggetti pubblici, affermando quindi che l?impresa sociale è una società posseduta e governata da soggetti privati, anche se non esclude che enti e istituzioni pubbliche possano partecipare, ma in posizione di minoranza, all?impresa. Le tentazioni di alcune amministrazioni pubbliche di dare vita a una sorta di neostatalismo, ad esempio costituendo fondazioni interamente in mano ad enti pubblici per la gestione dei servizi, vengono in qualche modo arginate dall?affermazione di questo principio. Questi due riconoscimenti possono essere definiti, almeno in Italia, rivoluzionari. Questa legge rappresenta tuttavia anche una sfida alla teoria economica, perché adesso una legge votata da una larga maggioranza afferma che l?impresa non è solo quella di profitto, tanto cara agli economisti, ma anche quella che assume come obiettivo principale la soddisfazione di interessi collettivi. Si può sempre sostenere che i parlamenti possono sbagliare, ma adesso bisogna almeno dimostrare che il parlamento italiano ha avuto torto.
Va poi rilevato che la legge è stata approvata in una fase dello sviluppo economico in cui la domanda di servizi di interesse collettivo è crescente e si sta estendendo soprattutto in settori in cui si pensava di poter gestire tutto attraverso imprese orientate al profitto, e in un periodo in cui lo Stato fa già fatica a soddisfare la domanda tradizionale di servizi. L?impresa sociale risulta così il candidato naturale alla produzione di molti dei nuovi servizi. Ciò le consentirà di acquisire autonomia dalla domanda pubblica che fino ad ora ha molto contribuito alla crescita delle organizzazioni non profit e della cooperazione sociale attraverso i processi di esternalizzazione. A condizione però che riesca a convogliare su di sé le risorse necessarie e a organizzarle in modo efficiente. Se ci riuscirà contribuirà non più solo ad ampliare l?offerta di servizi sociali, ma anche allo sviluppo economico, soprattutto a livello locale.

Un aut-aut che fa chiarezza
Altro aspetto di sicuro interesse è dato dagli effetti che questa legge avrà sul terzo settore, ridotto oggi, anche a seguito di provvedimenti confusi come la legge sulle onlus, a una nebulosa indistinta in cui tutti sembrano destinati e spesso vogliono fare tutto. Con questa legge le organizzazioni del terzo settore saranno costrette a fare una scelta netta: o diventano imprese o fanno altro, con tutte le conseguenze che ne derivano. Le associazioni, ad esempio, potranno sì svolgere un?attività imprenditoriale, altra novità introdotta dalla legge, ma a condizione che rispettino gli stessi obblighi di natura organizzativa, amministrativa e fiscale imposti alle imprese. Questo aut-aut farà chiarezza e costringerà quelle organizzazioni che oggi hanno un ruolo ambiguo a scegliere da che parte stare.
Questa distinzione di ruoli, imprenditoriali e non, avrà importanti riflessi sulla crescita culturale, organizzativa e civile del terzo settore. La confusione causata da troppe situazioni ambigue infatti non ha finora giovato né all?armonia interna al terzo settore, né alla sua immagine esterna. Bisogna infatti ricordare che la maggior parte delle persone non ha una conoscenza approfondita del terzo settore e quindi lo valuta sulla base di esperienze necessariamente limitate, fatte con poche e specifiche organizzazioni. Se queste fanno proposte confuse o si comportano in modo opportunistico, ad esempio producendo servizi senza la necessaria organizzazione o pasticciando nella definizione e gestione dei rapporti di lavoro, finiscono per nuocere alla reputazione dell?intero settore e quindi anche delle organizzazioni migliori.

E ora i decreti delegati
Tornando all?iter legislativo, l?attenzione si sposta ora sulla definizione dei decreti delegati. La sfida continua. E sarà necessaria una forte pressione sul legislatore delegato da parte di chi ha maggiormente seguito il dibattito e ha fatto esperienza di imprenditorialità sociale; questi soggetti dovranno seguire da vicino la fase di elaborazione dei decreti. Tre gli aspetti a cui, a mio avviso, occorrerà dedicare particolare attenzione.
Il primo passaggio delicato sarà quello della definizione dei settori in cui l?impresa sociale potrà operare o, come dice la legge «delle materie di particolare rilievo sociale in cui essa opera». Sarà un passaggio strategico, perché segnerà i confini entro cui l?impresa sociale potrà agire e ne condizionerà le potenzialità di sviluppo.
Sarebbe stata certamente più condivisibile una definizione più ampia di impresa sociale che ne sottolineasse solo l?obbligo al perseguimento di finalità di interesse generale. Come può infatti una legge definire oggi ciò che sarà di interesse generale tra qualche anno? Come può estendere tale definizione ad attività che possono essere esercitate in contesti diversi? Ad esempio, i servizi postali in una città possono rappresentare un?attività remunerativa gestibile da privati for profit, ma in un piccolo centro isolato difficilmente chi opera con la sola logica del profitto si candiderà a gestire questo tipo servizio. Nella prima versione della legge si diceva, di fatto, che l?impresa sociale era definita solo sulla base dei settori di intervento, soluzione che mi ha visto sempre contrario, mentre nella versione approvata è stato introdotto l?obiettivo del perseguimento dell?interesse generale, ma è rimasta anche la definizione dei settori. Questa modifica rappresenta senz?altro un passo avanti, ma si poteva fare di più. Sarebbe stata preferibile una soluzione come quella adottata in Gran Bretagna con la legge sulle Cic (Community interest company) in cui non sono definiti i settori di intervento ma è previsto soltanto che l?attività di queste imprese debba essere finalizzata a soddisfare l?interesse della comunità. Mi rendo tuttavia conto che attualmente nel nostro Paese tale soluzione non è ancora possibile, non è conforme alla tradizione giuridica italiana e comunque sarebbe difficile da gestire in assenza di una autorità di controllo. A maggior ragione occorre ora fare in modo che l?elenco dei settori sia più onnicomprensivo e generale possibile, anche per evitare che tra qualche anno comincino le forzature, così come è avvenuto per le cooperative sociali.
Un secondo aspetto delicato è quello relativo al finanziamento dell?impresa sociale. Questo è fortemente limitato dall?imposizione del divieto assoluto e totale di ridistribuire gli utili. Come ho già detto in altre sedi e come dimostra l?esperienza della cooperazione, questo divieto poteva essere allentato, prevedendo tetti, anche molto bassi, alla remunerazione. Ora, per evitare che lo sviluppo dell?imprenditorialità sociale sia compresso dalla difficoltà a raccogliere il capitale necessario agli investimenti, pur in presenza di una elevata disponibilità dei risparmiatori a destinare una parte dei loro risparmi ad attività che perseguono l?interesse collettivo, è necessario che nei decreti delegati si individuino con precisione quali saranno i mezzi che le imprese sociali potranno utilizzare per finanziare la propria attività. Sarà interessante vedere che tipo di strumenti finanziari saranno previsti e a quali condizioni potranno essere emessi e remunerati.
Terzo punto, infine, è quello relativo alla multi-stakeholdership. La legge blandamente afferma che devono essere rappresentati i lavoratori e anche tutti gli altri portatori di interesse. Si tratta certamente di una opzione condivisibile, che però necessita di essere molto ben qualificata. Va in particolare evitato che si individui nella sola partecipazione alla base sociale la modalità con cui è possibile rispettare questa norma. Si correrebbe il rischio di appesantire, in alcuni casi in modo eccessivo, la gestione. Occorre adoperare un po? di fantasia, ricordando che questa previsione può essere rispettata in vari modi, ad esempio attraverso l?obbligo di costituire comitati di utenti o consumatori con potere di nomina di un proprio membro nel consiglio di amministrazione o a cui sia riconosciuto un diritto di veto su alcune materie.

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