Non profit

La filantropia dell’anello nuziale

Seicento strutture, 5 milioni di persone aiutate Fundraising legato al precetto dell'elemosina E una particolare visione dei matrimoni...

di Redazione

Al di là dei disordini che sono seguiti alle decime elezioni presidenziali della Repubblica Islamica d’Iran lo scorso 12 giugno, e che continuano a Teheran ancora oggi, c’è un Iran che vive e che lavora, ma soprattutto c’è un Iran dei poveri, dei malati, degli orfani, di donne ripudiate e sole. Di questo Iran si occupa, tra le altre, la Fondazione Imam Khomeini, la più grande fondazione non profit del Paese, in questi giorni in Italia con alcuni dei suoi rappresentanti, ospiti presso la Casa della Carità di Milano per uno scambio culturale. Obiettivo: confrontare due mondi non profit molto diversi, ma che si occupano sostanzialmente di problemi universali come la povertà, l’esclusione sociale, la tossicodipendenza.
«La fondazione nasce all’indomani della rivoluzione islamica per volere dello stesso Ayatollah Khomeini», spiega il presidente Agha Anvari, «ed è oggi sotto la diretta supervisione della guida suprema Ali Khamenei. È ispirata agli insegnamenti dell’Islam e ogni anno aiuta circa 5 milioni di poveri, di famiglie in difficoltà, di disabili o di persone affette da malattie mentali, con circa 600 strutture sparse per tutto il Paese».
Se è vero che la maggior parte delle situazioni di disagio sociale sono universali, è anche vero che le profonde differenze che caratterizzano il non profit iraniano da quello occidentale, in particolare da quello italiano, sono legate alle rispettive strutture delle due società: in primo luogo, in Iran esiste ancora oggi una profonda differenza tra campagna e città, che rappresentano due mondi profondamente diversi, come nell’Italia di inizio Novecento.
«Nelle aree rurali la maggior parte della nostra gente non ha un’assicurazione sulla salute, cosa che rende gli anziani una fascia a rischio. Una delle attività principali della fondazione è quindi fornire assistenza medica gratuita nelle periferie del Paese», spiega Anvari. «Inoltre le politiche di intervento sociale per le aree rurali consistono nella promozione di un reinserimento delle famiglie bisognose nel mondo del lavoro attraverso attività tradizionali e locali, come la tessitura di tappeti e la manifattura e l’artigianato, che vengono poi rivenduti nei bazar e nei mercati della grandi città o addirittura esportati in Europa come prodotti tipici».
Una notevole differenza rispetto al non profit italiano è senza dubbio la provenienza dei fondi per finanziare le opere della fondazione. Il 35% del totale dei finanziamenti arriva infatti proprio dal popolo attraverso un sistema di raccolta molto semplice: nelle strade delle principali città iraniane si trovano dei raccoglitori di metallo, simili alle buche delle lettere, di colore blu e giallo, che servono per raccogliere il denaro dell’elemosina. L’elemosina – la zakat – è uno dei cinque pilastri dell’Islam. Il resto dei finanziamenti arriva dal governo e direttamente dal leader supremo Khamenei, che contribuisce di tasca sua a finanziare circa un terzo del totale dei fondi destinati all’organizzazione.
Altra differenza rispetto al non profit italiano, il poco peso del volontariato, che invece in Italia pesa per circa il 35% del totale delle ore lavoro.
In ultimo è particolarmente interessante l’importanza dell’attività di promozione di unioni matrimoniali fatta dalla fondazione. Anche qui si tratta di una differenza strutturale della società: «Il matrimonio è un rifugio dai peccati ed è una buona soluzione per i problemi sociali, specie per le donne sole, vedove e con figli a carico. Noi forniamo aiuti per affrontare le spese del matrimonio e svolgiamo un’attività di orientamento al matrimonio stesso», spiega Anvari.

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