Economia
La Fed e quello strano incontro con gli attivisti che certifica la crisi della politica
I vertici della Banca Centrale Americana hanno incontrato “Fed up“, il soggetto nato dalle ceneri di Occupy Wall Street. Una scelta che salta a piè pari l’intermediazione del Parlamento mettendo a nudo la crisi della rappresentanza nelle democrazie occidentali
A latere dell’annuale convegno di Jackson Hole, dove la Federal Reserve (la banca centrale americana) invita banchieri centrali di tutto il mondo ed un selezionatissimo numero di accademici per discutere di temi di politica monetaria, si è svolto un incontro un po' strano. I vertici della FED hanno incontrato gli attivisti di “FED UP” (un gioco di parole che in inglese significa “siamo stufi”), un’associazione nata dalle ceneri di OCCUPY WALL STREET che contesta la conduzione attuale della politica monetaria della FED perché ritenuta troppo favorevole alle banche e alle classi più ricche e poco attenta ai bisogni della classe media e delle minoranze. E contesta anche il fatto che ai vertici della FED la presenza femminile e delle minoranze etniche sia molto bassa.
Ma che senso ha che la banca centrale americana incontri direttamente esponenti dei movimenti civili, saltando l’intermediazione del Parlamento? Potrebbe a prima vista sembrare uno di quei grandi esempi di democrazia “americana” e in un certo senso lo è. La Fed è l’apice della tecnocrazia mondiale, più potente di qualunque altra banca centrale o del FMI. Basta confrontare la sua attitudine al dialogo con quel che accade alle nostre latitudini, dove per le figure apicali di strutture tecnocratiche ben più modeste il massimo sforzo è quello di parlare a studenti universitari protetti da battaglioni di carabinieri. Bisognerebbe quindi applaudire al fatto che i vertici della più potente banca centrale del mondo, quella che governa le sorti del dollaro, non si limitino a parlare a banchieri o a studenti, ma incontrino anche agguerriti esponenti della società civile e ne ascoltino le ragioni.
Però, a ben guardare, c’è qualcosa che non quadra. Perché la apertura di canali di comunicazione diretta tra la tecnocrazia e il “popolo” è anche un segno della crisi sempre più profonda del modello della democrazia occidentale. Qualcuno, infatti, vede il pericolo maggiore per la democrazia nel ritorno dei vecchi fantasmi del ‘900, che prendono corpo nei movimenti populisti al di qua e al di la dell’oceano. Qualcun altro individua invece in fattori esterni, come l’ISIS, la minaccia maggiore al nostro modo di concepire le libertà di espressione, di movimento, di privacy. Dimenticando però che il terrorismo per costruzione non può vincere alcunché.
In realtà, la democrazia va in crisi quando i meccanismi di rappresentanza non funzionano più e la “Politica” perde il suo ruolo di intermediazione tra le istanze dei cittadini e la macchina burocratica che governa lo Stato e ne esercita le funzioni. Non stiamo parlando della sacrosanta divisione dei poteri, ma di una sorta di autodichia endemica, estesa a tutte le strutture tecnocratiche. Un caso eclatante recente è stato quello dello stipendio del governatore della Banca d’Italia che non è soggetto alle regole del settore pubblico e quindi può essere superiore a quello del Presidente della Repubblica, come di fatto è. Chi lo ha deciso, nonostante le proteste del Governo italiano? La Banca Centrale Europea.
L’incontro tra la FED e l’associazione FED UP conferma questa tendenza, ma mostra anche un salto di qualità, forse inconsapevole. Si potrebbe infatti leggere tale incontro come se la FED avesse bisogno di legittimare l’enorme potere di cui dispone con un contatto diretto con il “popolo”, saltando a piè pari l’intermediazione delle aule parlamentari. Se il processo di disintermediazione della “politica” inizia, chi può sapere dove e quando finirà? Per i cittadini è molto più utile parlare direttamente con chi prende le decisioni concrete. Per i tecnocrati vale un ragionamento analogo: visto che l’efficacia della loro azione dipende dalla legittimazione di cui godono presso i cittadini, perché perdere tempo con i “politici”, che spesso si dimostrano pessimi interpreti delle istanze generali?
È una evoluzione molto pericolosa per la tenuta del tessuto democratico.
In parte, la “colpa” è dell’incapacità dei partiti, non solo italiani, di selezionare una classe dirigente o dei parlamentari in grado di gestire il rapporto con strutture burocratiche sempre più tecniche e professionali. Bisognerebbe capire se questa incapacità di creare una classe dirigente all’altezza sia frutto del meccanismo di selezione democratica e se sia possibile porvi rimedio. Perché se non ci fosse rimedio, è inevitabile che i cittadini si organizzino attraverso la creazione di corpi intermedi specializzati che fanno “Politica” come i partiti non sono più in grado di fare.
In parte, sembra essere una deriva del sistema istituzionale occidentale dove la scelta di creare authority indipendenti dal potere politico e dai parlamenti assicura da un lato gradi di professionalità elevati ma dall’altro affida ad organismi tecnici la gestione di problemi “politici” di primaria grandezza. Anche in questo caso bisognerebbe chiedersi se questo sia il risultato inevitabile di un mondo sempre più complesso, dove le capacità tecniche sono fondamentali oppure se c’è ancora un ruolo per l’indirizzo “politico”. D’altro canto, quante volte si è sentito dire, proprio dai politici, che di fronte a problemi non ci sono soluzioni “di destra o di sinistra”, ma solo soluzioni? Un’affermazione completamente errata, ma per capirlo è necessaria una forte competenza … tecnica.
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