Famiglia
La famiglia italiana? Vittima di una “deriva lavoristica”
Lo dice il Nono Rapporto Cisf, pubblicato ieri, che traccia un'analisi approfondita su famiglia e lavoro
Famiglia e lavoro sono diventate due mete e due ambiti di vita sempre più distanti e per certi versi inconciliabili: è lo scenario tratteggiato dal IX Rapporto Cisf sulla famiglia in Italia, intitolato “Famiglia e lavoro: dal conflitto a nuove sinergie”.
Il rapporto, curato dal professor Pierpaolo Donati, mostra come da un lato, le trasformazioni del lavoro stanno mettendo a dura prova la famiglia, in particolare la crescente precarietà del lavoro non consente ai giovani di fare famiglia o mette in crisi la famiglia se uno ce l’ha già. Dall’altro, senza una soddisfacente vita familiare il lavoro rischia di diventare una forma di alienazione.
“Questo circolo vizioso”, si legge nel testo, “è in buona misura il prodotto di un’economia che sta subendo una forte deriva lavoristica, nel senso che la priorità lavorativa condiziona tutta la vita delle persone. I datori di lavoro affermano che il loro obiettivo non è assistenziale, ma produttivo, che debbono far quadrare i conti economici, e che la famiglia è una questione privata o di interesse del welfare pubblico”.
Che fare allora?
Da tempo si parla di ?conciliare famiglia e lavoro?. L’Unione Europea ha varato programmi, direttive e raccomandazioni, e così pure in Italia i governi centrali e locali parlano da parecchi anni di misure di conciliazione.
Questi programmi fanno riferimento ad una legislazione specifica e a organismi particolari, come le Commissioni di pari opportunità, che dovrebbero servire soprattutto a favorire la donna nell’inserirsi nel lavoro, nel mantenere l’occupazione o ritornarvi se ne è uscita per motivi di vita familiare.
Di fatto, il Rapporto evidenzia come, particolarmente in Italia, i risultati effettivi di tali misure siano ancora molto scarsi. Particolarmente in questo Paese, il mondo del lavoro stenta a vedere la famiglia, e la famiglia non riesce a conciliare le sue esigenze con il lavoro che cambia.
Di fronte a questo stato di cose, il Rapporto propone di rivedere la questione dalle fondamenta. Dobbiamo tornare sui nostri passi e chiederci: che cosa vuol dire conciliare famiglia e lavoro? Il Rapporto presenta delle nuove analisi e delle nuove proposte su questa ampia tematica, che vengono qui sintetizzate nei seguenti punti.
Nono Rapporto Cisf sulla famiglia in Italia
COSA VUOL DIRE CONCILIAZIONE?
CHI NE HA PIÙ BISOGNO,
LE DONNE O GLI UOMINI?
Al di là del significato ovvio, quello di rendere bilanciato ovvero equilibrato l’impegno delle persone nei due ambiti (lavoro e famiglia), il Nono Rapporto denuncia tre ?derive? nel modo di interpretare la conciliazione:
– la femminilizzazione del problema (formalmente si parla di pari opportunità fra uomo e donna, in realtà le misure sono quasi tutte mirate alle donne);
– un approccio utilitaristico/produttivistico di stampo lavoristico (lo scopo delle misure conciliative è sempre subordinato all’efficienza e alla competitività dell’azienda),
– un orientamento individualistico (si tratta di sostenere le libertà e responsabilità degli individui, più che il bene relazionale della famiglia).
Benché il termine conciliazione si riferisca formalmente alla famiglia, in realtà le richieste e le prospettive rimangono essenzialmente individualistiche, trattano la famiglia come un vincolo e non come una risorsa, e comunque non evidenziano le conseguenze che le politiche auspicate hanno sulla famiglia nel suo insieme.
In sostanza, la conciliazione viene ancora trattata come una questione legata ai bassi tassi di partecipazione femminile al mercato del lavoro, anziché essere trattata come una ?questione di famiglia? che riguarda in uguale misura uomini e donne e qualunque ambito di lavoro considerato come organizzazione.
DUE SCENARI STRATEGICI
PER CONCEPIRE LA CONCILIAZIONE
IN TERMINI OPERATIVI
Il Rapporto evidenzia due grandi modalità di concepire la conciliazione, che sostengono due scenari strategici: il primo è lo scenario attualmente dominante, di stampo lavoristico, e il secondo è quello che il Rapporto individua come possibile modalità correttiva, e per certi versi anche alternativa, che viene chiamata sussidiario.
– Le strategie lavoristiche sono quelle che definiscono e trattano la conciliazione come un metodo per accrescere i tassi totali di occupazione, in particolare quelli femminili. Il loro scopo è abolire le discriminazioni e rompere le barriere che impediscono la mobilità sociale e occupazionale. Perseguono questo obiettivo attraverso il primato del complesso ?Stato + mercato?, a cui è affidato il ruolo propulsore del workfare.
Nella vita quotidiana, si traducono in una serie di misure, di agevolazione e incentivazione collettiva, che il Rapporto espone e commenta analiticamente. Nel complesso, la sinergia è vista dal lato della produttività e capacità competitiva del sistema. In Italia, la politica pubblica è ancora tutta interna a questa strategia, come si può constatare analizzando la composizione e le modalità di erogazione della spesa sociale.
– Le strategie sussidiarie sono quelle che definiscono e trattano la conciliazione nei termini di una reciproca valorizzazione tra famiglia e lavoro. Esse intendono il lavoro come sussidiario alla famiglia, senza che ciò significhi una svalutazione del lavoro, ma invece come valorizzazione del lavoro ovunque esso sia purché ‘umano’.
Lo Stato è inteso come sussidiario alla società civile, e pertanto le misure di conciliazione sono primariamente definite entro il ?complesso aziende-famiglie-terzo settore?, facendo intervenire lo Stato là dove necessario e utile per promuovere la relazione famiglia/lavoro. Anziché una partecipazione forzata al lavoro (workfare), si punta ad un welfare comunitario attraverso la promozione di una migliore relazione tra famiglia e lavoro.
La sinergia è vista in un’ottica di comunità, anziché nell’ottica di incentivare spinte lavoristiche individuali che corrono il rischio di rendere sregolati e alienati i percorsi di vita personali e il ciclo di vita familiare. Il metro di successo di questa linea non è il tasso di occupazione in quanto tale, ma la qualità di vita (il benessere) a livello della comunità.
PERCHÉ INVESTIRE DI PIÙ
SULLA CONCILIAZIONE?
(I)
1. SOSTENERE LA NATALITÀ. L’Italia presenta una delle situazioni più problematiche in Europa (con Spagna, Portogallo e Grecia): ha avuto un crollo della natalità (negli ultimi trent’anni) in condizioni di bassa occupazione femminile (ancor oggi, stare a casa non significa poter avere più figli). L’Italia continua ad essere il Paese con il numero più elevato di ?famiglie vincolate? nelle loro scelte procreative (meno figli di quelli che desiderano).
2. SOSTENERE LE PARI OPPORTUNITÀ FRA UOMO E DONNA e collocare i sostegni alle scelte di maternità e paternità nel quadro dei sostegni complessivi alla ?triplice presenza? di uomini e (soprattutto) donne nei tre ambiti: del lavoro, della propria famiglia e della famiglia dei genitori anziani (o dei figli). La conciliazione è ancora vista come un ?affare di donne?, ma in futuro non potrà più essere così.
3. EVITARE L’ECCESSIVA RIGIDITÀ DEL LAVORO E L’ECCESSIVA PRECARIETÀ DEL LAVORO. Le leggi finora varate (legge 10 aprile 1991, n. 125, concernente azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro, a cui si è poi affiancata la legge 25 febbraio 1992, n. 215, a sostegno della imprenditoria femminile, e la legge 8 marzo 2000, n. 53 sui congedi parentali e formativi) hanno registrato un bassissimo tasso di applicazione.
Viene qui presentata una prima valutazione della cd. Riforma Biagi, che puntava a incrementare i tassi di occupazione che vedono oggi gravemente penalizzati i giovani, le donne e gli over 50, collocando al contempo la persona e la famiglia al centro delle politiche sociali e del lavoro. Tra i vari istituti di tale riforma vengono considerati specificamente il part-time e l’istituto del contratto di inserimento al lavoro.
Rispetto al part-time, oltre che sul piano normativo ed economico, il successo della riforma dipende da un cambiamento anche culturale, cioè dall’instaurarsi della convinzione che questo istituto possa costituire uno strumento utile per affrontare le sfide della competizione e della efficienza nell’organizzazione dei processi produttivi. Il contratto di inserimento al lavoro ha per certi versi cristallizzato la disparità di trattamento economico tra donne e uomini a causa di una reale e radicale debolezza delle donne nel mercato lavorativo italiano.
PERCHÉ INVESTIRE DI PIÙ
SULLA CONCILIAZIONE?
(II)
4. MODERNIZZARE IL ?LAVORO IN FAMIGLIA?, inteso sia come ?lavoro casalingo?, sia come lavoro svolto in ?un’impresa familiare?. Il primo è ancora fortemente penalizzato e privo di riconoscimenti (la legge 493/1999 sulla assicurazione obbligatoria per chi svolge lavoro casalingo ha rappresentato un positivo passo in avanti, ma la sua applicazione è in forte ritardo). Il secondo necessita di maggiori tutele per chi svolge lavoro gratuito e volontario.
In sintesi. Il Rapporto mette in evidenza come, al di là della legislazione, che per certi versi in Italia è all’avanguardia (per es. nei trattamenti di maternità previsti sulla carta, L. 53…), i soggetti che la debbono realizzare siano ancora largamente in ritardo. Soprattutto i soggetti economici della conciliazione (come imprenditori e sindacati) mostrano grandi resistenze.
Essi si rendono conto che trattare gli individui che lavorano come se non avessero famiglia non è ragionevole, che ciò diminuisce il prestigio dell’azienda – pubblica o privata che sia -, e che, inoltre, diminuisce le capacità produttive e competitive delle stesse imprese perché i migliori lavoratori vanno dove le aziende danno più attenzione e servizi per la vita familiare. Ma, nonostante tutto ciò, il mondo del lavoro stenta a riconoscere di fatto le esigenze della famiglia sul piano pratico.
UNA NUOVA PROSPETTIVA:
LA DIFFERENZIAZIONE
RELAZIONALE SUSSIDIARIA
L’apporto più originale del Rapporto riguarda l’idea della differenziazione relazionale tra famiglia e lavoro, da gestire in base al principio di sussidiarietà.
Per comprendere il cambio di rotta che qui viene proposto, si deve partire dall’osservazione che il mondo del lavoro è ancor oggi guidato dalla differenziazione funzionale, basata sulla specializzazione delle funzioni e il principio della prestazione. Questo tipo di differenziazione separa la famiglia e l’azienda, specializzandole fra loro rispettivamente come sfera degli affetti privati da un lato e come sfera pubblica della concorrenza produttiva e dei consumi dall’altro.
La differenziazione relazionale, invece, avviene in base alla capacità delle strutture o parti della società di fornire prestazioni sovrafunzionali l’una per l’altra. Le sfere (famiglia e azienda o posto di lavoro) si differenziano in base al modo in cui si configurano i loro reciproci interscambi: per es. quanto tempo una famiglia dà al lavoro, e quanti servizi l’azienda dà alla famiglia per la cura dei figli (si creano famiglie diversificate per l’impegno lavorativo, così come si creano aziende differenziate per l’attenzione alla famiglia): non c’è più una netta e crescente separazione, ma una nuova interdipendenza fra i due ambiti.
Adesso la forma della famiglia non è più quella dei semplici affetti privati, ma diventa quella di un soggetto sociale che chiede il riconoscimento delle sue funzioni sociali e pubbliche. Una forma di famiglia nasce perché si modificano gli scambi che i membri della famiglia hanno con il mondo del lavoro, e, viceversa, l’impresa cambia perché si rende conto di dover aumentare la propria responsabilità verso la famiglia se vuole essere attraente e competitiva.
Lo spazio delle attività di conciliazione è esattamente quello dell’interscambio tra famiglia e azienda: è lo spazio relazionale in cui si collocano tutti i servizi e le misure che hanno lo scopo di realizzare l’equilibrio tra famiglia e posto di lavoro. Questo spazio deve essere costruito ad hoc, deve prendere una sua propria ?costituzione?, che chiamo civile (anziché politica), perché deve essere elaborata dai soggetti di società civile e consiste di un insieme di diritti umani fondamentali e di un insieme di regole e misure concrete che li attualizzino (per esempio, per realizzare il diritto delle persone – in particolare le donne – ad avere figli e continuare a lavorare).
In quello spazio ?tra? il lavoro professionale e la famiglia, fino a qualche anno fa, c’erano delle istituzioni che ora non ci sono più: il vicinato, la parentela -i nonni, i cugini-, le parrocchie, le associazioni tradizionali, le amicizie nella comunità intorno alla famiglia. C’era una comunità di persone che si aiutavano a far fronte alle esigenze del lavoro. Queste istituzioni ?civili? debbono ora essere sostituite da altre istituzioni, anch’esse ?civili?, come le associazioni di famiglie, i nidi familiari, la ?madre di giorno? (Tagesmutter), le forme di cooperazione sociale, le banche del tempo, le reti di auto e mutuo aiuto che costituiscono il capitale sociale di una comunità. Queste nuove istituzioni sociali devono avere la capacità di adempiere le funzioni proprie delle reti che intrecciano servizi formali e informali per sostenere la famiglia nei suoi impegni di lavoro.
?BUONE PRATICHE? PER LA
CONCILIAZIONE
Il tema delle ?buone pratiche? è analizzato alla luce delle considerazioni precedenti. Un pratica di conciliazione può essere considerata buona non semplicemente perché dà un beneficio ad un individuo come tale, ma perché agisce sulle relazioni tra famiglia e lavoro,. Il Rapporto presenta un’analisi critica di quelle che usualmente vengono oggi chiamate ?buone pratiche?, le quali spesso sono solo applicazioni di norme di legge (come i congedi genitoriali o l’avvio di un nido aziendale sovvenzionato con forti incentivi e contributi pubblici).
In genere le buone pratiche di conciliazione sono il frutto di un’iniziativa manageriale, o dove la componente femminile è preponderante, o per trattenere personale altamente specializzato, oppure ancora in contesti di terziario avanzato. Viene fatto il punto della situazione sullo stato dell’arte, presentando gli esempi più interessanti di buone pratiche nel settore privato e in quello pubblico: part-time, job sharing, telelavoro, banca delle ore, formazione e mentoring, ecc. Viene rilevato che le buone pratiche sono legate a una nuova concezione del lavoro per obiettivi (e non per quantità di tempo dedicato) e alla Responsabilità Sociale di Impresa.
In termini di innovazione delle politiche sociali, il Rapporto propone di distinguere le buone pratiche in base a tre modelli di welfare:
o i servizi offerti per via istituzionale (i servizi tradizionalmente offerti da un ente pubblico),
o quelli offerti tramite un mercato sociale regolato
o quelli detti relazionali, o di terza generazione o ‘societari’.
I servizi di terza generazione si definiscono e si qualificano come ?relazionali? o ?societari? perché:
o coinvolgono un mix di attori e di risorse,
o si orientano a produrre un servizio relazionale,
o vengono messi in atto con un contratto-patto relazionale fra chi li gestisce e chi ne usufruisce,
o operano nell’ottica di essere sussidiari alla famiglia come tale.
PRINCIPI GENERALI PER
RILANCIARE LA CONCILIAZIONE
Il Nono Rapporto valuta positivamente le raccomandazioni della UE agli Stati membri per una migliore attuazione della conciliazione, ma li ritiene insufficienti. Propone di leggere i principi generali contenuti nei programmi europei in un’ottica non lavoristica, ma di uguale dignità dei diritti del lavoro e della famiglia. Pertanto, a integrazione (in corsivo) delle raccomandazioni UE (fra ? ?), il Rapporto propone:
a) ?una politica del lavoro che garantisca la donna nella scelte della maternità con incentivi e garanzie del suo reintegro nel mondo del lavoro. Devono essere favoriti i modelli del lavoro a tempo parziale e a tempo determinato?; esistono altre buone pratiche di conciliazione dei tempi (job sharing, lavoro a coppia, lavori per obiettivi, ecc.), e inoltre, a prescindere dalla specifica situazione lavorativa della donna, vanno previste misure di valorizzazione del lavoro genitoriale (materno o paterno) con benefici monetari e servizi in natura commisurati alla condizione familiare;
b) ?una rimodulazione degli orari dei servizi cittadini (negozi, uffici, scuole) secondo criteri di massima flessibilità per venire incontro alle esigenze dei genitori che devono far fronte alle esigenze dei diversi ambiti familiari e professionali?; vanno create forme di coordinamento territoriale degli orari tramite agenzie ah hoc nelle quali siano rappresentati tutti i soggetti (politici, economici, sociali) interessati al tema della conciliazione;
c) ?una politica dei servizi che sia in grado di tessere attorno alla famiglia una vera e propria rete di assistenza?; la rete di assistenza deve essere mirata non solo alla famiglia problematica o ?vincolata?, ma a tutte le famiglie, deve essere centrata sulla relazione famiglia-lavoro per abilitare tale relazione e valorizzare sia l’una che l’altro, deve avere le stesse famiglie e le loro associazioni come soggetti sociali che organizzano servizi;
d) ?una maggiore partecipazione degli uomini alla cura e alla crescita dei figli?; ciò non significa rendere i lavori indifferenti il gender, ma creare condizioni contrattuali che diano agli uomini la possibilità di valorizzare il loro ruolo familiare (negli orari di lavoro, nei benefici normativi, ecc.) mediante contratti relazionali;
e) ?una politica socioprevidenziale per la madre non lavoratrice, penalizzata fortemente dal sistema sociale che non riconosce alla casalinga nessun valore per le mansioni da lei svolte?; si dovrebbero aggiungere misure fiscali di valorizzazione del lavoro casalingo e domestico, misure assicurative gestite anche dal privato sociale; benefici specifici per attività di cura domestica (per bambini e persone non autosufficienti) nell’ottica di valorizzare le reti di mutuo e auto-aiuto e l’intreccio fra reti informali e formali.
INFO: www.cisf.it
17 centesimi al giorno sono troppi?
Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.