Welfare
La disabilità non significa essere malati
Il Consiglio di Stato stabilisce che per gli educatori che lavorano nei Centri Diurni Disabili non è necessario il titolo rilasciato dalla facoltà di medicina, dando prevalenza alle finalità educative e abilitative del servizio. Una questione sindacale? No, di cultura
La disabilità non è una malattia. Nonostante le tante volte che nel linguaggio quotidiano usiamo ancora espressioni come “affetto da disabilità” o “affetto da sindrome di Down”, come se le persone con disabilità fossero state colpite da chissà quale malattia. Lo dice senza mezzi termini la Convenzione Onu dei diritti delle persone con disabilità, adottata nel dicembre 2006 a New York e ratificata dall’Italia nel 2009, che parla di «persone che presentano una duratura menomazione fisica, mentale, intellettiva, sensoriale la cui interazione con varie barriere può costituire un impedimento alla loro piena ed effettiva partecipazione nella società». Persone, non malati. Ora lo dice senza mezzi termini anche il Consiglio di Stato, che con la sentenza n. 03602/2015 non solo stabilisce che per lavorare nei Centri diurni disabili (CDD) gli educatori non devono necessariamente avere il titolo di laurea rilasciato dalla facoltà di medicina (classe SNT2), ma fa un’affermazione forte sul piano culturale. Alla vigilia della Giornata internazionale delle persone con disabilità, dedicata quest’anno al tema “Inclusion matters: access and empowerment for people of all abilities”, la sentenza del Consiglio di Stato dice qualcosa a tutti noi, non solo agli avvocati o agli addetti ai lavori.
Un po’ di storia
La storia inizia circa un anno fa, quando l’azienda speciale Insieme per il sociale emana un bando di gara per l’assegnazione dei servizi di carattere educativo, socioassistenziale e di supervisione per i CDD di quattro Comuni lombardi: Cinisello Balsamo, Cusano Milanino, Bresso e Crescenzago. Si tratta dei servizi per 120 persone circa, con una cinquantina di educatori. L’associazione “Senza Limiti” presenta subito ricorso, contestando il fatto che per il coordinatore e gli educatori sia richiesto il diploma di laurea in scienze dell’educazione e il diploma triennale di educatore professionale (classe 19, per i non addetti ai lavori si tratta di un titolo eminentemente pedagogico). Il TAR lombardo in marzo dà ragione al ricorrente: coordinatore e educatore devono avere il titolo di "Educatore Professionale" rilasciato dalle facoltà di Medicina e chirurgia (classe SNT2). Un pasticcio dovuto al fatto che ci sono due titoli di studio diversi per una professione che si chiama nello stesso modo? Non proprio.
Non si tratta di negare o sottovalutare le esigenze di cura delle persone con disabilità. Ma ridurre il tutto di una persona ai suoi problemi di salute, più o meno connessi alla sua menomazione, è per noi sbagliato.
Alberto Fontana, presidente LEDHA
«È una questione culturale. Le persone con disabilità non sono malati. Certo, necessitano anche di trattamenti sanitari, ma non solo di quelli», dice Ledha, che a questo punto della vicenda si schiera accanto ai Comuni e li accompagna nel ricorso al Consiglio di Stato. Che ribalta la sentenza del Tar, scrivendo che «l’approccio alla persona con disabilità non deve avvenire solo in termini di malattia» e che il compito dell’intervento degli educatori in un CDD è «il recupero dello svantaggio sociale». Di conseguenza non è necessario il titolo sanitario per lavorarci, anzi diventa prioritario quello sociale.
Dobbiamo superare la visione del servizio come qualcosa di irregimentato, uguale per tutti: dobbiamo passare a una visione incentrata sui progetti di vita individuali per davvero, centrati sulla persona e sui suoi desideri
Gianfranca Duca, assessore di Cinisello Balsamo
Quali conseguenze?
«La conseguenza immediata è che finalmente potremo aprire le buste e selezionare la cooperativa a cui affidare il servizio», spiega Gianfranca Duca, assessore alle politiche sociali del Comune di Cinisello Balsamo. «Siamo stati fermi un anno, ovviamente il servizio è proseguito attraverso un proroga e anzi ringrazio di cuore tutti gli operatori, ma nel bando avevamo inserito anche alcuni elementi di innovazione e di migliorie per la struttura, non vediamo l’ora di avviare una nuova stagione».
L’impatto culturale è ciò che invece sottolinea Ledha: «I contenuti della sentenza saranno utili in questo momento in cui Lombardia sta mettendo in campo la riforma sociosanitaria regionale, per mantenere in evidenza alle nuove ATS e ASST le finalità dei servizi», dice Giovanni Merlo. «Il sistema dei servizi alla persona deve evolversi in maniera inclusiva». Ovvero i CDD non sono luoghi in cui si erogano prevalentemente prestazioni infermieristico-sanitarie, quasi fossero mini-ospedali in cui le persone con disabilità vengono “ricoverate” quasi in day hospital otto ore al giorno, ma strutture prioritariamente vocate a interventi di natura sociale, relazionale e abilitativa. Un cambio di paradigma sulla disabilità. «Il messaggio che ci auguriamo arrivi a livello nazionale è il passaggio alla prospettiva dell’inclusione», continua Duca. «Le persone con disabilità sono risorse per le loro comunità e il ruolo dell’educatore – che è anche un po’ animatore sociale – è quello di capire cosa si può costruire nei territori. La seconda cosa è il superamento della visione del servizio come qualcosa di irregimentato, uguale per tutti: dobbiamo passare a una visione incentrata sui progetti di vita individuali per davvero, centrati sulla persona e sui suoi desideri».
Foto ROBIN UTRECHT/AFP/Getty Images
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