Volontariato

La dignità per l’amore dei figli

di Elisabetta Ponzone

Il giovane Stefano sta facendo una tesi sulla dignità della persona detenuta in carcere. E’ passato da noi in cooperativa per parlare con “i ragazzi” e ci ha provocati con il suo genuino sorriso. Sul dizionario il termine “dignità” si riferisce alla condizione di onorabilità e di nobiltà morale che deriva all’uomo dalle sue qualità intrinseche o da meriti particolari. Per Mike la dignità è il rispetto che si ha di sé e si esige dagli altri. Anche in carcere, aggiungo io. Tropi da liberante ha detto che non avrebbe più tradito l’amore dei suoi figli.

«Il mio papà rimarrà sempre il mio papà, vero?» Straziante la domanda del bimbo di E. in carcere e intervistato da Valentina, anche lei laureanda e interessata al rapporto tra padri detenuti e figli, che mi scrive: «Il carcere spesso permette di riflettere. No, non il carcere: le persone nel carcere. Coloro che si impegnano a rendere utile un percorso che altrimenti sarebbe nient’altro che grigio, proprio come quei muri. A. dice: “Sono in carcere, mi mancano dieci anni, ma io per la prima volta adesso mi sento libero. Perché io la mia prima galera ce l’avevo mentale […]. Se non era per il Gruppo della Trasgressione e BambiniSenzaSbarre non so come sarebbe andata a finire […] mi hanno aiutato ad accettare il senso di colpa e a vivere proprio con mio figlio […]. Grazie al gruppo, adesso […] le problematiche che vengono […] le affronto!” Tutte storie di uomini che hanno lasciato un mondo, a volte un lavoro, in ogni caso degli affetti. Ognuno dei papà incontrati ha una propria storia e un proprio modo di essere.»

Il padre di Mike sta a New York. Ne parla sempre, ma sembra lontano dal suo cuore. La sua dignità la sta ritrovando con il lavoro, ma ha ancora tanto da fare. A., che lavora nel laboratorio accanto al nostro, una volta mi ha detto che non riesce più a scrivere a suo figlio: «Quando sono entrato aveva 7 anni e ora ne ha quasi diciotto. Cosa posso dirgli? Chi sono io? Tra poco è maggiorenne e io sono qui come un cretino a dover passare il resto della mia vita tra queste mura, mentre lui sta diventando uomo senza un padre. Mi sento troppo in colpa, non ce la farò mai!». Bisognerebbe aiutarlo.

La fatica quotidiana in nord Uganda con AVSI alle prese con l’emergenza umanitaria degli ex bambini soldato, mi ha insegnato che tutte le risorse finanziarie e tecniche messe in campo erano necessarie, ma non sufficienti. Il punto fondamentale era restituire ai ragazzi rapiti dai guerriglieri e costretti a fare cose inaudite – così come ai padri ora in carcere – la possibilità di recuperare la loro umanità offesa ma non uccisa. La loro dignità. E questo accade solo attraverso il rapporto con persone, attraverso un incontro umano che risvegli il desiderio di vita e l’esigenza di un significato dell’esistenza.

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