Non profit

la difesa del bello

di Redazione

Il Peep di Carini è una borgata-dormitorio di Palermo. Qui c’è l’istituto comprensivo Laura Lanza che riunisce classi materne, elementari e medie. L’ingresso con i suoi murales colorati è segno di resistenza, cocciuta e allegra opposizione agli affari malandati che stanno fuori, alla colata di grigiore che sgorga senza tregua. C’è la mano del coraggio sopra queste mura, mano che non si rassegna e ripassa il suo credo sulle pareti dell’atrio, dei corridoi, dell’ovunque ci sia spazio per dire “sì” alla vita…
Avolte si compie l’infamia di uccidere il bello.Con il macete alla mano tronchiamo netta la meraviglia e addormentiamo il braccio per togliere memoria all’atto commesso. Nasce svelta l’abitudine di sferrare colpi su colpi, muovere a giro la nostra lama e affettare ogni pezzo intero di stupore che ci viene offerto. Alla gratuità del dono rispondiamo con con l’avidità della violenza. Una furia ingorda, capace di tenere mille pance dentro il ventre che si fanno ressa per il privilegio dell’ultimo morso.
Questi i pensieri che mi spuntano alla mente, aghi ghiacciati sotto il sole di Sicilia, mentre al fianco dell’autostrada Capaci resiste. Ogni giorno testimone di una strage che su quella terra ci ha versato sangue. E le finestre delle case paiono occhi sbarrati, pupille di salgemma e lacrime ossidate nella visione ergastolana di qualcosa che è entrato dentro e non esce più. Giampiero guida l’auto e racconta. Mi dice che tra non molto arriveremo a Carini, dove sta la scuola che lo vede preside e combattente. Perché in questo paese, uno dei tanti acini che formano il robusto grappolo della periferia palermitana, devi farti il muscolo di legno duro. Bisogna avanzare a traliccio di nervi saldi per non mandare in segatura la speranza di cambiare le cose. Non viene difficile capire quali siano le situazioni da rovesciare né da dove parta questa urgenza di ribaltamento che vorresti facesse cadere il sonno dal materasso. Viene anzi naturale comprendere e pigliarsi in bocca la pietra dura dello sdegno davanti ai cumuli di immondizia sparsi lungo la strada che porta al cuore del paese. È arteria ingolfata dai guasti di un sistema che ignora l’urlo del battito, la protesta di un sangue che vorrebbe correre dritto lungo il litorale assolato anziché ingobbire la schiena e inciampare il passo contro i ferri crociati di rifiuti e indifferenza.
Alla mia sinistra la spiaggia scende verso il mare, si trascina appresso una bellezza disfatta, le rughe indurite di chi da troppo tempo non distende più la fronte. Peccato, perché sarebbe bello sedersi sulla riva e raccogliere i pensieri sfuggiti via da una fronte liscia di sabbia e sale. Una leggera pendenza in salita, l’ultima curva a destra e ci siamo. Due complessi di case popolari, famiglie stringate nel cemento e lacci tanto stretti da strozzare il fiato. Attorno strisce di campi cresciuti selvaggi, erba alta da nascondere un pascolo intero. Di nuovo peccato, perché questi spazi potrebbero ospitare i giochi dei bambini, se l’incuria si levasse di mezzo per lasciare spazio alla fantasia.
Scendiamo dall’auto, a scuola è l’ora della ricreazione. Parola che mi suggerisce una nascita seconda, un mettersi alla luce col primo sorriso al posto del primo pianto. E infatti oltre le inferriate dei cancelli mucchi di ragazzini nascono, astri scatenati di luce sopra pochi metri quadri di terra. Stappano vita da ogni gesto, schiumano l’aria di tenerezza e bisogno di essere visti. Noi adulti dovremmo lasciarci inzuppare, intridere i nostri panni con il guizzo sacrosanto delle loro urgenze, ricevere battesimo dalle mani dell’infanzia. Forse così facendo i figli di domani non si troverebbero in eredità una bellezza massacrata, forse a poco a poco calerebbero le serrande di ogni macello.
Comincia la visita della scuola, l’Istituto comprensivo Laura Lanza che riunisce classi materne elementari e medie. L’ingresso con i suoi murales colorati è segno di resistenza, cocciuta e allegra opposizione agli affari malandati che stanno fuori, alla colata di grigiore che sgorga senza tregua. C’è la mano del coraggio sopra queste mura, mano che non si rassegna e ripassa il suo credo sulle pareti dell’atrio, dei corridoi, dell’ovunque ci sia spazio per dire “sì” alla vita nonostante al potere faccia comodo piantare il “no” dentro i timpani. Così da sordi al senso primo dello stare al mondo scordiamo in fretta la ragione del cuore che ci batte in petto, rinunciamo al diritto di una speranza, al dovere di combattere per ottenerla. Perdiamo l’uomo, guadagniamo il fantoccio facile da manovrare. E sopra le ossa troviamo la pezza dove prima stava la carne.
Eppure esiste prospettiva diversa a questa. Lo sa Giampiero, lo sanno gli insegnanti che con lui lottano in difesa del bello edificando assieme agli studenti il fortino di un presente sano, l’avamposto di un futuro migliore. Entro in una classe di terza elementare, qui i bambini sono preda di un pizzicore allegro. Hanno appena ricevuto dei piccoli portatili, uno ogni due alunni.Se li tengono aperti sopra i banchi, occhi sgranati a cercare dentro gli schermi l’angolo di quella favola da portare fuori, da trascinare a pugno stretto fino a casa. Molti di loro vivono calcati nel disagio, già costretti a sentire la cinghia della disoccupazione che tira la pancia e accorcia il fiato. Chiedo i loro nomi, domando con il desiderio di conoscere le loro voci. Strillano all’unisono la volontà di esistere, creature uniche che assieme fanno popolo in erba, appena spuntato dalla terra. E subito determinato a toccare il cielo.
Jessica, Vanessa, Jimmy? nomi salpati oltreoceano ancora prima di sbarcare in patria, nomi appena assegnati e già spediti tra le braccia del sogno americano, come se nello sceglierli i genitori volessero spostare la sorte dei figli dalla periferia di Palermo al centro di New York. Che magari un domani vivendo al centesimo piano di un grattacielo per loro sarà più facile crederci, alla verità di un cielo che si lascia toccare. Una bambina si alza dal banco e mi indica la parete dell’aula, sfondo celeste e un albero di magnolia dipinto sopra. Ci sono fiori bianchi attaccati ai rami, spumoni dolci per ogni sguardo che tiene fame. È opera creata dalla classe. «L’abbiamo fatto noi», dice la bambina e ripetono i compagni. Un coro così santo da benedire l’intero quartiere e cacciare qualunque maledizione. Saluto tutti sperando che l’impatto acustico di voci tanto innocenti e vive provochi crepa insanabile dentro ogni ingiustizia, prepari sepoltura finale a violenza e bruttura. Spetta a noi amplificare la voce di questi figli. Aggiungere il nostro grido al loro canto. Affinché gli adulti di domani nel voltarsi indietro non ci vedano come errori muti, sbagli senza volontà di correzione. E quindi senza diritto di assoluzione.
Esco dalla scuola, è sole pieno di metà giorno. La luce batte forte tra immondizia e cemento. Pochi passi bastano a vedere il mare.

Nessuno ti regala niente, noi sì

Hai letto questo articolo liberamente, senza essere bloccato dopo le prime righe. Ti è piaciuto? L’hai trovato interessante e utile? Gli articoli online di VITA sono in larga parte accessibili gratuitamente. Ci teniamo sia così per sempre, perché l’informazione è un diritto di tutti. E possiamo farlo grazie al supporto di chi si abbona.