Politica

La deriva della politica e l’appello di Napolitano

editoriale

di Riccardo Bonacina

Pare che la politica italiana non abbia ormai altro approdo che quello di solleticare il rancore per quotarlo al mercato della politica. C’è chi solletica il rancore verso gli stranieri, chi verso l’avversario politico trasformandolo in un nemico, chi lo spinge sino a livello istituzionale schierando un potere contro l’altro. Derubricate le ideologie e qualsiasi forma di idealità, l’unico motore della politica pare essere oggi il rancore. Che così è definito dal dizionario della lingua italiana: «Avversione nei confronti di qualcuno per un torto o un’offesa subiti». Ecco, pare che alle parti politiche, deprivate di ogni sogno e di ogni ipotesi costruttiva sul futuro del Paese, non sia rimasta altra arma di consenso che quella di suscitare quotidianamente avversione nei confronti di qualcuno o di qualcosa, e quella di spingere i cittadini a sentirsi offesi o vittime di torti non importa se solo presunti (come nel caso dell’infinita e pietosa querelle politica e giudiziaria su uno dei momenti fondanti di ogni democrazia, quello delle elezioni). Il rancore come motore della politica necessita di una concezione di cittadino visto nella sua individualità, senza legami né appartenenze, solo, e perciò più propenso all’indignazione che alla costruzione.
Per produrre un cittadino che riduca la concezione di sé e della sua cittadinanza al fatto di essere spaventato o indignato è necessario un circuito politico-mediatico-giudiziario totalmente irrelato con la realtà della vita quotidiana e capace di sfornare allarmi e scandali a getto continuo sulla testa dei cittadini. In questo le tre caste di questo Paese – politici, magistrati e giornalisti – si sostengono a vicenda e sono necessarie l’una all’altra. Al cittadino medio, disorientato dall’escalation senza fine di polemiche e contrasti, non rimane che inscenare, da spettatore, il proprio rancore, il proprio risentimento e la propria indignazione, solleticato, di volta in volta, da una parte politica o dall’altra che fanno a gara nello spararla più grossa. Con performance verbali degne di migliori cause e i cui campioni restano Bossi, per meriti acquisiti, e Di Pietro per le più recenti performance. Si va di emergenza in emergenza – “Emergenza clandestini”, “Emergenza criminalità”, “Emergenza democratica” – usando se non lo stesso vocabolario, certo la medesima grammatica.
Che tale deriva sia pieni di pericoli lo ha sottolineato il Presidente della Repubblica sul sito del Quirinale rispondendo, in maniera tanto civile quanto sensata, a due cittadini che lo sollecitavano in senso opposto sul nodo “elezioni regionali”. Lamentando la mancanza di ogni accordo che andasse «al di là delle polemiche su errori e responsabilità dei presentatori delle liste non ammesse e sui fondamenti delle decisioni prese dagli uffici elettorali (…) per tendenze all’autosufficienza e scelte unilaterali da una parte, e per diffidenze di fondo e indisponibilità dall’altra parte», avvertiva: «La vicenda ha messo in evidenza l’acuirsi non solo di tensioni politiche, ma di serie tensioni istituzionali. È bene che tutti se ne rendano conto».
L’appello pare però essere caduto nel vuoto. La rincorsa al rancore continua, opponendo piazza a piazza. Ma sino a quale soluzione finale?

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