Non profit

La democrazia non è roba da Bush

L'editoriale di Giuseppe Frangi sulla situazione politica irachena alla caduta del regime di Saddam.

di Giuseppe Frangi

Quante domande e quanti dubbi rendono inquieto il cuore del popolo arcobaleno in questi giorni. Volenti o nolenti, il 9 aprile ha cambiato lo scenario. Il terribile Saddam è svanito nel nulla come un lesto ladruncolo. L?arsenale che doveva minacciare la sicurezza del mondo si è rivelato un esercito di cartapesta. La guerra rapida e preventiva ha lasciato sul terreno una quantità inimmaginabile di distruzione e di morte: e nessuno, possiamo scommetterlo, farà mai questa tragica contabilità. Tutti motivi che confermano quanto fosse ragionevole, legittima e giusta l?opposizione al conflitto. Ma c?è un altro elemento che non va dimenticato: questo Iraq, tartassato da 35 anni di un?assurda dittatura che aveva depredato tutte le ricchezze per oliare una macchina bellica faraonica e impotente e per indorare la vita della nomenclatura, ha mostrato un vero desiderio di libertà.
Quest?osservazione, semplice e ineccepibile, nonostante i mille inquinamenti propagandistici e mediatici che hanno accompagnato la caduta di Bagdad, deve indurre a una riflessione decisiva. La democrazia, se democrazia sarà, è stata portata in Iraq con le armi. Le armi angloamericane in Iraq non sono arrivate per portare la democrazia: se fosse stato quello il movente, non si capirebbe perché tale ?privilegio? dovesse toccare a Bagdad. Le armi americane sono arrivate, secondo la logica più semplice, per prendere il petrolio. O, tutt?al più per staccare una minaccia (più presunta che reale, a quanto pare). Ma, cercando una cosa e l?altra, hanno demolito una dittatura che durava da 35 anni. E se è vero che, come cantava Giorgio Gaber, «c?è la dittatura, la democrazia e… basta. Solo due. Credevo di più», caduta una dittatura dovrebbe trovare spazio il germoglio di una democrazia. Ma la democrazia è un bene delicato e prezioso, che deve essere aiutato a maturare e a crescere. Che matura e cresce sul terreno di una società civile cui sia stata data l?opportunità di approfondire le ragioni e le modalità della propria convivenza.
Inoltre, la democrazia è il terreno in cui un popolo può riscattare anche la propria povertà. Può tornare padrone del suo destino e quindi anche dei suoi beni materiali. Prospettiva quanto mai lontana, questa, per l?Iraq: la sua ricchezza è, con buona probabilità, la vera ragione della guerra preventiva. Quindi quello che le era stato sottratto dalla voracità di un dittatore insolente, domani le verrà sottratto da quelle compagnie, texane come Bush, che hanno il compito decisivo di garantire il mantenimento del livello di vita al popolo americano. Eppure in quale altro modo gli iracheni potranno tornare a gestire quel che gli appartiene, se non grazie alla forza che darebbe loro l?essere una democrazia? Non solo, come potranno trovare e costruire una pace degna di essere chiamata tale? Per questo il compito del popolo arcobaleno, dopo il 9 aprile, si è fatto ancora più grande. Ma come per difendere ed esportare la pace, bisogna aver sperimentato una consuetudine con la pace, così per difendere ed esportare la democrazia bisogna aver seguito un?analoga pratica. Difficile quindi che un esercito, con tutte le migliori intenzioni, possa immetterne il germe. Più facile che chi abbia sperimentato il gusto del mettersi insieme, e abbia così creato spazi nuovi di libertà e di solidarietà, possa essere di aiuto a un popolo che deve costruirsi un simile cammino su strade rispettose della sua storia e della sua cultura.
Per questo è l?ora di un movimento per la democrazia, di una democrazia che non necessita di campi di battagli, ma di comprensione.

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