Non profit

La Dakar nella bufera

Dopo il ritrovamento del corpo senza vita di un 49enne francese, arrivano le proteste di ecologisti ed archeologi

di Paolo Manzo

A differenza di Paul Green e del suo copilota Matthew Harrison, i due britannici vittime di un incidente avvenuto sabato e da ieri in coma artificiale nell’ospedale di Santa Rosa dove sono stati ricoverati, il motociclista francese Pascal Terry, disperso da domenica, non ce l’ha fatta. E’ infatti stato trovato morto la notte scorsa lungo il percorso della seconda tappa della Dakar versione Sudamerica. Si allunga così la lugubre scia di morti di questo rally: in 30 edizioni con Terry i morti sono arrivati a quota 56, “appena” 26 dei quali piloti partecipanti alla corsa. Gli altri trenta erano spettatori o semplici “passanti”, tra cui anche un nutrito numero di bambini africani, di quelli che spesso la Francia aiuta con ottime campagne di sensibilizzazione. Purtroppo la Dakar rientra nella “grandeur”, al pari del Tour e del Rolland Garros, per cui non è “negoziabile”. Quest’anno si erano scelte Argentina e Cile per evitare “problemi” perché in Africa, dove tra terrorismo e golpe non era più garantita il passaggio “in sicurezza” del rally, i rischi erano troppi. Al posto del “pronti – via” sugli Champs Elysées, dunque, c’è stata una settimana fa l’ugualmente larga Avenida 9 de Julio a Buenos Aires, invece del deserto africano Il silenzio tormentato della pampa, niente montagne dell’Atlante ma stavolta Ande a tutto spiano. Insomma, continuano a chiamarla Parigi-Dakar ma sotto sotto è proprio un’altra cosa. Scriveremo una nuova pagina del rally in America del Sud”, aveva assicurato il direttore della competizione, Etienne Lavigne prima della partenza, l’uomo che aveva deciso di far cambiare continente alla Parigi Dakar lo scorso anno. Troppi incidenti mortali e minacce terroristiche locali che sono andate ad interferire con la vita stessa dei piloti, come fu il caso di quattro francesi trucidati in Mauritania. Da qui l’idea di fare armi e bagagli e di cambiare aria. Il problema è che i morti, come abbiamo visto, continuano ad esserci e, forse, sarebbe il caso di chiedersi quanti ne saranno necessari affinché questo rally diventi un po’ meno “avventuroso” e un po’ più “rispettoso della vita umana”. Comunque, mentre l’adrenalina è alle stelle in vista delle tante difficoltà che restano ancora da superare nei prossimi giorni, qualche brivido agli organizzatori lo stanno aggiungendo anche gli ambientalisti che rischiano di creare seri problemi allo svolgimento della gara. Sotto accusa infatti sono finiti i diversi luoghi verdi attraversati dal rally, a rischio proprio per il loro fragile equilibrio di biodiversità. Tra le aree protette in pericolo ci sono l’Área Natural Protegida Meseta de Somuncura, in Argentina, dove i piloti sono passati il 5 di gennaio mentre, il giorno dell’Epifania, le proteste ecologiste si sono concentrate su un’altra area protetta, quella del Valle Cretácico. Gli ambientalisti che protestano invocano i diritti della costituzione perché, come loro stessi gridano, “questo scempio non continui”. Altre proteste sono previste per i prossimi giorni, appoggiate anche da professori universitari dal momento che il percorso, oltre al deserto dell’Atacama in Cile, attraverserà anche aree d’interesse archeologico. Naturalmente gli organizzatori non si arrendono e la stampa mainstream si bada bene dal porre la questione in discussione. Sia quella dei morti che quella dell’ambiente. Già, ma sino a quando?

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