Vivere la malattia

La cura è (anche) meditazione e raccoglimento

Sempre più diffuse negli ospedali, le Stanze del Silenzio o Quiet Room sono spazi accoglienti, aperti a pazienti, familiari e staff medico sanitario, dedicati alla riflessione e all'elaborazione della sofferenza. Perché, quando una diagnosi rivoluziona la vita e ce ne mostra la finitezza, oltre al "fare" è importante il "pensare"

di Nicla Panciera

«Gli ospedali sono luoghi frenetici e concitati, dove la cura passa attraverso visite, prestazioni, interventi. Ma la cura non può limitarsi a questo, perché la malattia riguarda il nostro intero essere». Alessandra Feltrin è la psicologa responsabile dell’Unità operativa di psicologia dell’Irccs Istituto oncologico veneto Iov. Come già in altri istituti del paese, anche allo Iov, nelle sue sedi di Busonera e di Castelfranco Veneto, sono state di recente allestite delle stanze del silenzio o quiet room, luoghi accoglienti per il raccoglimento e la meditazione, la riflessione e l’elaborazione della sofferenza, aperti a pazienti, loro familiari, caregiver e staff medico sanitario. L’esperienza delle stanze del silenzio, importate dal Nord Europa dove esistono da decenni, mostra l’importanza di un luogo confortevole per elaborare il proprio vissuto di malattia.

La malattia è una rivoluzione, non un nemico

«La malattia non è un nemico da sconfiggere, come insegnava già negli anni Settanta Susan Sontag nel suo La malattia come metafora. Oggi sappiamo che la metafora bellica nel cancro non è di aiuto proprio perché, per usare le parole del filosofo francese Jean Luc Nancy nel suo L’intruso, “se l’intruso è in me, io divento estraneo a me stesso”» spiega Feltrin. «Tale senso di estraneità e di alienazione è molto presente nei pazienti oncologici che spesso mi riferiscono di non sentirsi più in relazione con sé stessi e di non sapere cosa fare». Può venire in aiuto la consapevolezza che la malattia si fa sentire nel corpo e nella mente: «Io spiego sempre che la malattia è una rivoluzione e le rivoluzioni non sono mai pacifiche. Il cancro è ancora evocativo di morte, quindi questa rivoluzione parte con un messaggio che ci annuncia che il nostro tempo è limitato. Questo sconvolge perché il concetto di limite è scotomizzato nella nostra società dove gli si preferisce quello di potenza».

La paura si contrasta con la voglia di vivere

Inoltre, nella nostra società, la morte continua a essere un tabù e, inevitabilmente, abbiamo poca familiarità con essa. Anche per questo, di fronte a una diagnosi di cancro, la maggioranza si trova impreparata. Pazienti e familiari si concentrano su alcuni aspetti dello scenario che si trovano davanti, non sempre quelli cruciali. «Spesso, nelle famiglie, vengono mobilitate forze e tensioni che non vanno nel verso giusto e che, spesso, rivelano che si è già smesso di vivere. Al contrario, una diagnosi di cancro richiede di trovare un modo di vivere insieme alla malattia e di individuare nuove forme di esistenza, nonostante l’angoscia». Come fare? «La paura di morire si contrasta con la voglia di vivere».

Non solo fare, ma anche pensare

Ai malati «è richiesto un cambiamento di paradigma: passare dal fare al riflettere, per concentrarsi su di sé e sui propri bisogni e desideri» spiega Feltrin. La stanza del silenzio, accogliente e priva di simboli religiosi, fornisce un luogo per fermarsi «a pensare al limite e alla trascendenza. Le religioni avocano a sé la competenza sulla morte, ma la meditazione e la riflessione sulla nostra esistenza e su quello che di noi resterà agli altri prescindono dalle credenze, sono universali e necessarie. Servono tempi e spazi confortevoli, la stanza del silenzio accoglie e favorisce il dialogo, l’apertura all’altro e la condivisione del proprio sentire, che possono dare grande conforto».

Non escludere i propri cari

Spesso i pazienti non intendono coinvolgere i familiari nella propria sofferenza per non essere di peso. Al contrario, spiega Feltrin, «la loro esperienza è molto importante per gli altri e non farli partecipi del proprio vissuto significa escluderli e privarli anche di un’occasione di apprendimento che sarà loro utile in futuro, come quella di conoscere il modo in cui si è stati capaci di vivere e di morire. Basta anche solo pensare al conforto che ci lascia un genitore che si sia commiatato dalla vita sereno, questo aiuta anche ad elaborare il lutto». Ma anche il paziente stesso potrebbe trarre benefici da una schietta condivisione: «Lo scambio rafforza i rapporti, dialogare significa donarsi reciprocamente qualcosa di molto intimo e ciò può essere assai corroborante per le persone malate che sentono di potersi affidare e imparano a trasformare l’angoscia in condivisione, rasserendandosi».

La gratitudine del professionista della cura

Come spesso riferito dai professionisti della cura, anche Feltrin esprime gratitudine e ritiene di avere «molto imparato nella relazione con i miei pazienti» dice «Io ho imparato da loro. Come me, anche molti specialistici oncologi hanno imparato dai loro pazienti e tutte queste cose le sanno bene. Ma manca loro il tempo per entrare in relazione, il tempo per la comunicazione». Come a dire che sì, certamente servirebbero più psiconcologi per rispondere ai bisogni dei tanti pazienti lasciati a loro stessi, ma «al di là delle specialità e discipline, è il tempo di cura che viene negato e tutti i curanti devono prendere consapevolezza di questo».

Le stanze del silenzio

Le quite room sono spazi accoglienti, privi di simboli religiosi, per stare, da soli o in piccoli gruppi, nel rispetto reciproco, anche semplicemente per staccare per qualche istante dallo stress della malattia. Ma le stanze del silenzio non si trovano solo negli ospedali ma anche nelle carceri italiane, nelle Università degli studi. La giunta milanese del sindaco Beppe Sala, con una delibera del 2019, ad esempio, ha approvato la promozione delle “stanze del silenzio” all’interno delle strutture del Sistema sanitario nazionale e, in prospettiva, negli istituti di prevenzione e di pena, nelle stazioni e negli aeroporti.

Foto di StockSnap su Pixabay


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