Economia

La crisi ha messo le ali alla Csr

«Il modello di impresa post-capitalistico ha bisogno di tenere in conto molto di più i diversi portatori di interesse rispetto alla seconda metà del secolo scorso», spiega Severino Salvemini, professore ordinario di organizzazione aziendale alla Bocconi intervistato da Vita.it

di Monica Straniero

In questi giorni dovrebbe essere resa operativa con un decreto attuativo la Direttiva Ue sulle non financial information che obbligherà, a partire dal 2017, le imprese di pubblico interesse con più di 500 dipendenti e con uno stato patrimoniale superiore ai 20 milioni di euro, di rendicontare il proprio impegno sui temi della corruzione, delle pari opportunità, dell’ambiente, dei diritti umani. Una svolta importante verso un modello di business più attento alle dimensioni sociale e ambientali. Ma le cose stanno davvero così? Sull’argomento interviene per Vita.it Severino Salvemini, Professore ordinario di organizzazione aziendale presso l'Università Bocconi di Milano.


Professor Salvemini, oggi qual è il vero significato della responsabilità sociale d’impresa?
Poiché molte grandi imprese si sono rese conto che gran parte dei loro consumatori finali sono sensibili a comportamenti etici (inquinamento, lavoro minorile, produzioni di prodotti nocivi alla salute, e così via), esse si sono date codici di condotta tali da migliorare il loro impatto sulla società. Spesso questi comportamenti – comunicati anche tramite documenti specifici, quali il “bilancio sociale” – vengono esplicitati e promossi dagli Uffici comunicazione delle aziende, ben sapendo che il tutto avrà un’influenza positiva sul mercato. Peraltro la nuova Direttiva Ue sulle non financial information si basa sul principio “comply or explain”, non quindi obbliga quindi un’azienda ad adeguarsi alla nuova previsione ma richiede che spieghi i motivi per non farlo. In questo modo la responsabilità sociale finisce per essere un nice to have, un qualcosa di collaterale e di opportunistico che aiuta l’immagine aziendale e la reputazione dell’impresa nell’ambiente. Il tema va affrontato invece in modo più approfondito e anche più rigoroso teoricamente. E ciò in particolare alla fine (speriamo) di una lunga crisi che ha messo in discussione il modello capitalistico consolidatosi alla fine del Novecento.

Che impatto ha avuto la crisi sull’impegno sociale delle imprese?
Prima della crisi (1985-2005) la teoria economica di stampo liberista e poi addirittura ultraliberista, ha sostenuto un modello di impresa basato sostanzialmente sulla finanziarizzazione, ossia la massimizzazione del valore degli azionisti, motivando il tutto con il meccanismo che, se gli azionisti avessero ottenuto un miglioramento del valore del loro capitale (e quindi una forte remunerazione del loro rischio), l’impresa sarebbe andata bene. Peccato che la crisi degli ultimi anni ha illustrato che coloro che si credeva fossero immuni da rischio (gli stakeholders, tra cui in primis i lavoratori) erano invece fortemente a rischio, attraverso riduzioni della loro remunerazione oppure licenziamenti. Cosa ci insegna tutto ciò? Che il modello di impresa post-capitalistico (di cui non possediamo ancora un nome, ma di cui siamo convinti che occorra cercare un paradigma) ha bisogno di tenere in conto molto di più i diversi portatori di interesse rispetto alla seconda metà del secolo scorso. E di conseguenza una nuova responsabilità sociale, un po’ diversa dalla CSR e un po’ più solida ideologicamente rispetto a quella passata.

Tuttavia negli ultimi anni numerose imprese si sono rese protagoniste di comportamenti irresponsabili. Il più eclatante è stato il caso Dieselgate che ha colpito Volkswagen, una società che ha sempre dichiarato di credere nell’agire etico. Come se lo spiega?

Se riprendiamo il discorso fatto prima, sono le imprese di piccola e media dimensione (quelle che stanno nei territori) che hanno una maggiore sensibilità per la responsabilità sociale. Esse sanno bene che il loro successo dipende dalla terra in cui sono nate e prosperate, dalla collettività locale che spesso ha prodotto una cultura manifatturiera specifica, dai lavoratori che hanno sviluppato un talento professionale superiore. In queste imprese la responsabilità sociale è spesso impersonificata dalla figura dell’imprenditore (a della sua famiglia), che testimonia nel territorio la presenza dell’azienda nei comportamenti più familiari (ad esempio, quando Brunello Cucinelli racconta che, al termine della giornata lavorativa, va al bar della piazza principale di Solomeo a giocare a carte con i suoi operai, cui spesso presta anche del denaro per i fabbisogni finanziari delle loro famiglie).Le grandi imprese, più globalizzate e quindi senza un baricentro in un distretto geografico specifico, questi elementi non li hanno più, li hanno cancellati con il grande sviluppo dimensionale e con la sostituzione del gruppo dirigente al singolo imprenditore. La responsabilità sociale diventa quindi una “best practice”, meno sentita individualmente. Inoltre la grande impresa internazionale ha una pressione molto più forte sul piano dei risultati economico-finanziari e tale pressione (che è di breve termine) a volte finisce per comprimere anche alcuni investimenti di carattere sociale (normalmente di lungo termine, perché ricadono “a parabola” sulla società).

Numerosi studi hanno dimostrato la relazione positiva che esiste tra l’integrazione dei criteri ESG nelle scelte di investimento e le performance aziendali. Quali sono le ragioni dello scetticismo che ancora circonda la CSR?
Non è proprio scetticismo. È che ci sono sfumature e sensibilità diverse sul tema della responsabilità sociale. C’è chi sostiene che è già ampiamente responsabile quella impresa che opera in economicità e distribuisce profitti ai suoi azionisti e chi invece sostiene che solo con un robusto ritorno ai portatori di interesse si possa parlare di socialità responsabile.

Le Benefit Corporation che in Italia sono state introdotte nel 2015, società che oltre al profitto si occupano di contribuire al beneficio comune della società, sono considerate l’ultima frontiera della responsabilità sociale. Possono essere il futuro del capitalismo?
Le imprese benefit potranno sicuramente dare un contributo non convenzionale alla CSR e ad un nuovo modo di concepire il modello di impresa. Però il cosiddetto post-capitalismo necessiterà di un ripensamento più ampio rispetto all'attuale modello di impresa e anche rispetto alle imprese benefit.

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