Famiglia

La crisi delle virtù civili

Speciale: Lezioni di economia civile. Terza puntata

di Stefano Zamagni e Luigino Bruni

Introduzione
La paura come il fondamento della vita comune. L?uomo come essere fondato sull??uccidibilità?. Non siamo animali sociali per amore verso gli altri, ma per utilità nostra: questa visione pessimistica spazza via il realismo ottimista dell?umanesimo italiano. Si entra in una stagione dominata da egoismi, legittimati a livello filosofico. Anche l?economia ne esce cambiata. Come spiega la Favola delle api, scritta da Mandeville: nell?alveare sinché regna il tutto contro tutti si crea ricchezza. Quando invece prevalgono l?onestà e l?altruismo, arriva la povertà…
Terza puntata.Mandeville,Hobbes e le api egoiste
Come abbiamo anticipato nella lezione precedente, non fu l?anima civile dell?Umanesimo a prevalere all?aurora della modernità. Quella che si affermò fu invece una concezione dell?uomo visto come un essere individualista, guidato in ogni sua azione deliberata dall?amor proprio, frenato soltanto dall?incontro-scontro con gli interessi degli altri. Tipica di questo periodo di transizione dall?Umanesimo alla modernità (il Seicento e la prima parte del Settecento) è la domanda: «perché gli uomini scelgono di vivere in società?», come a dire che è affatto concepibile che possa esistere un uomo isolato prima del rapporto con gli altri. Questa visione esclude dunque che il rapporto con l?altro sia connaturale all?essere umano, il quale, in realtà, non conosce vita altra da quella sociale. Posizioni simili le troviamo nel razionalismo cartesiano e nella Monadologia di Leibniz, che ci ricorda come ogni persona sia «un mondo a parte, autosufficiente, indipendente da ogni altra creatura». L’INSOCIEVOLE SOCIEVOLEZZA DI KANT Certo, si riconosce bensì il fatto che la vita reale è sociale, nel senso di associata, ma nella dinamica interpersonale si riconosce di più il rischio della morte stessa dell?individuo. Per esprimere questo paradosso Kant conia l?espressione ?insocievole-socievolezza?, che secondo il filosofo tedesco caratterizza in maniera esemplare la condizione dell?uomo all?alba della modernità. Per comprendere come la nascente economia politica e civile affronterà questo paradosso, è molto importante guardare da vicino il pensiero di due autori, Thomas Hobbes e Bernard de Mandeville, ai quali si deve la risoluzione del paradosso della vita in comune attraverso la rinuncia alla vita civile. Come è noto, per Hobbes ciò che gli uomini hanno in comune è la loro ?uccidibilità? generalizzata, e cioè il fatto che chiunque può essere ucciso da chiunque altro. Il conflitto, la competizione, la lotta per sopraffare l?altro e conquistare il potere è la condizione ordinaria degli uomini, mentre la pace e la concordia sono stati temporanei. La paura dunque è il fondamento della vita in comune. Emblematiche, e lontanissime dall?umanesimo civile e dalla tradizione classica, sono le prime pagine del De Cive (1642) di Hobbes: «La maggior parte di quelli che hanno scritto attorno agli Stati, presuppongono o richiedono, come cosa che dev?essere rifiutata, che l?uomo è un animale sociale, zòon politikòn, secondo il linguaggio dei greci, nato con una certa natural disposizione alla società. (?) Questo assioma, benché comunemente accettato, è completamente falso. (?) Noi non cerchiamo i compagni per qualche istinto della natura, ma cerchiamo l?onore e l?utilità che essi ci danno: prima desideriamo il vantaggio, poi i compagni». ([1999], p. 48). Siamo al polo opposto rispetto ad Aristotele, san Tommaso, Genovesi o Smith, e all?idea di cittadino tipica dell?umanesimo civile. Non una società civile che nasce dalla composizione di persone naturalmente socievoli, ma una società-Stato che può solo esistere se un patto artificiale, un contratto sociale, la crea e un ?Leviatano? la mantiene con la forza. Nel radicalismo di Hobbes troviamo però anche un?intuizione capace di darci conto del perché il pensiero moderno abbia preso le distanze dall?umanesimo civile: le guerre di religione e la violenza dei nascenti Stati nazionali (il pensiero di Hobbes si forma nel periodo della durissima ?guerra dei trent?anni?), mostravano un uomo moderno liberato bensì dai lacci del feudalesimo ma incapace di dar vita a società pacifiche e felici. Davanti a un tale spettacolo, la soluzione che Hobbes vide come possibile per evitare la guerra di tutti contro tutti, fu quella di rinunciare al rapporto interpersonale, delegando la mediazione intersoggettiva allo Stato-Leviatano; in altre parole, rinunciò al civile per salvare il politico inteso come sfera dello statuale. Un altro attacco all?ottimismo degli autori civili (in Inghilterra rappresentati soprattutto dal filosofo Shaftesbury e dalla sua teoria sulle virtù) fu quello di Mandeville, con la sua celebre Favola delle api (1714), il cui sottotitolo racchiude il messaggio centrale dell?autore: vizi privati, pubblici benefici. La favola narra infatti la triste storia di un alveare di api egoiste che, grazie alla loro avarizia e disonestà, vivevano nell?abbondanza e nel benessere. A un certo punto le api si convertono e diventano oneste, altruiste e virtuose. In breve tempo l?alveare precipita nella miseria. LA TEORIA DELL’UOMO,ANIMALE INCIVILE Rispetto a Hobbes, qui l?attacco alle virtù civili viene sferrato da una prospettiva diversa: non solo non è vero che l?uomo è un ?animal civile?, come aveva asserito Leonardo Bruni, portato dalla sua natura al rapporto con gli altri, ma Mandeville arriva a sostenere che anche qualora lo fosse, o lo diventasse per la cultura e l?educazione ricevute, dovrebbe comunque tenere a freno le sue virtù, perché esse sono negative per la vita della società. È il vizio che porta il bene-vivere sociale, non la virtù: «Frode, lusso e orgoglio devono vivere, finché ne riceviamo i benefici. (?) La semplice virtù non può far vivere le nazioni nello splendore. Chi vuol far tornare l?età dell?oro deve tenersi pronto per le ghiande come per l?onestà». Le virtù, secondo Mandeville, sono benefiche solo nelle piccole comunità (come la famiglia o il villaggio), e se le grandi società volessero fondarsi sulle virtù civiche sarebbero destinate a restare sempre nella miseria e nell?indigenza, a sperimentare assieme «l?onestà e le ghiande». Hobbes e Mandeville furono i due autori con i quali i fondatori dell?economia moderna dovettero maggiormente confrontarsi. Dopo le loro critiche radicali non era più possibile fondare un?economia che volesse chiamarsi politica o civile, che volesse mostrare la ?civiltà? e il ruolo civilizzante dell?economia, senza prendere sul serio quelle loro obiezioni di fondo. Invero, in una società come quella descritta da Hobbes e Mandeville non c?è posto per l?economia civile che, come abbiamo visto nella precedente lezione, si fonda proprio sulle virtù civiche e sulla natura socievole dell?essere umano il quale è spinto a incontrarsi, anche nel mercato, con gli altri. Va però detto che l?attacco di Hobbes, e forse ancor più quello di Mandeville, ha finito con l?esercitare un certo fascino sui primi economisti: pur non volendo condividere l?impianto di fondo delle loro visioni dell?uomo e della società, Smith, Genovesi o Galiani non potevano negare che Hobbes e ancor più l?autore della Favola delle api cogliessero qualche aspetto di verità. Innanzitutto li affascinava la capacità descrittiva della favola: l?economista, lo scienziato sociale, non deve immaginarsi un uomo ideale, ma deve saper descrivere, e magari prevedere, le azioni dell??uomo qual è? (come si esprimeva Genovesi); e il realismo e la spregiudicatezza di Hobbes e Mandeville offrivano quel di più di realismo che certamente attirava quei primi studiosi dell?economia e della società moderna. La principale strada che i primi economisti seguirono, sia in Scozia che in Francia e in Italia, fu una rifondazione dell?etica che, tenendo conto delle critiche degli autori individualisti, fornisse nuove ragioni al civile e alla socialità. Non è quindi vero, come normalmente raccontano i libri di testo, che l?economia moderna nasce emancipandosi, anzi separandosi, dall?etica: dopo Hobbes e Mandeville ciò non era più possibile; essa nasce piuttosto sulla rifondazione di una nuova etica, che consentisse all?economia di ritornare civile nonostante Hobbes e Mandeville. E non a caso questa rifondazione avvenne attorno alla metà del 1700: si dovette cioè attendere un nuovo periodo di riforme e di pace (si pensi, ad esempio, alla Napoli di Vico e Genovesi sotto il riformatore Carlo III ), perché potesse rinascere, ed essere credibile, una nuova riflessione razionale sulla vita civile. L’INTERESSE PERSONALE NON È SOLO UN VIZIO Nella prossima lezione vedremo che l?operazione da loro tentata, operazione che accomuna le varie scuole classiche di economia politica, fu quella di oltrepassare Hobbes e Mandeville, raccogliendo alcune delle loro critiche, ma portando il discorso su di un piano superiore: mostrarono, infatti, che la società civile è proprio quell?insieme di stili di vita, di regole e di istituzioni che fa sì che la natura ambivalente dell?essere umano, la sua insocievole-socievolezza, possa essere orientata al bene comune. Riconobbero che nella moderna società commerciale non si può far troppo affidamento sulla benevolenza, perché l?uomo ?reale? è tendenzialmente portato all?interesse personale (e in ciò stavano dalla parte dei critici); l?interesse personale, però, all?interno della vita civile, non è più considerato un ?vizio? perché è visto congiuntamente all?interesse degli altri (e in ciò stavano dalla parte degli umanisti civili). L?economia moderna, politica (inglese) e civile (italiana), nacque quindi inserita all?interno di una ricca e complessa antropologia, che espresse la ricerca dell?interesse personale come una passione compatibile con l?interesse degli altri. Non opposero all?interesse la benevolenza o l?altruismo, ma dissero che l?interesse personale è solo una faccia della medaglia, l?altra è occupata dagli interessi degli altri: «L?utile, quella gran molla delle azioni umane, e il ben essere a cui ognuno aspira, faran sempre correre gli uomini là ove l?utile e il ben essere viemmeglio e più facilmente s?incontrano. (?) Che ciascuno resti persuaso, che per rinvenire il proprio bene bisogna cercarlo nel procurare quello de? suoi simili» (Giuseppe Palmieri).


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