Welfare

La corsa al posto pubblico dei professionisti del sociale

Sale la richiesta di educatori e assistenti sociali da parte delle amministrazioni pubbliche. Risultato? Sono sempre di più le posizioni scoperte nel Terzo settore. Eleonora Vanni (Legacoopsociali): «Siamo in grande affanno perché sul mercato non ci sono educatori e infermieri per l’assistenza domiciliare integrata»

di Francesco Dente

En plein. Posti a bando coperti al 100%. E un rapporto che sfiora il 200% fra i candidati risultati idonei al termine delle prove e le posizioni messe a concorso: due idonei per ogni figura reclutata. Sembra sia scattata la corsa al posto pubblico nelle professioni sociali a giudicare dai dati sulle procedure di selezione per educatori e assistenti sociali gestite nel 2021-22 dal Formez, il centro servizi del dipartimento della funzione pubblica. Dati tanto più sorprendenti se si considera che nello stesso biennio è rimasto vacante il 16,5% degli ingressi totali previsti nel pubblico. Con punte del 71,6% fra gli ingegneri e gli architetti da impiegare nei servizi tecnici. Numeri, soprattutto, che ripropongono gli interrogativi sulla fuga dal Terzo settore e sulla mancanza di specialisti del sociale nel settore privato come nel pubblico. Le organizzazioni professionali continuano a denunciare però difficoltà nel reclutamento. Segnale di una domanda in crescita. «Gli enti locali del Nord segnalano problemi sia nella selezione del personale che nelle sostituzioni per la maternità», fa notare Gianmario Gazzi, presidente del Consiglio dell’ordine degli assistenti sociali (Cnoas). Stessa lamentela da parte di Davide Ceron, presidente dell’Associazione nazionale degli educatori professionali (Anep). Lo scenario non cambia se si volge lo sguardo al non profit. «Siamo in grande affanno perché sul mercato non ci sono educatori e infermieri per l’assistenza domiciliare integrata», fa eco Eleonora Vanni, numero uno di Legacoopsociali.

Le cause sono tante. Nel caso degli assistenti sociali (46.784 iscritti all’ordine nel 2022) la spinta alle assunzioni data dai Piani sociali nazionali se da un lato ha ridotto il gap di personale del Centro-Sud, dall’altro ha frenato la mobilità dal Meridione che consentiva di coprire parte delle posizioni del Settentrione. La finanziaria 2021, a tal proposito, destina fino a 180 milioni annui (67 quelli effettivi nel 2021) per raggiungere l’obiettivo di un assistente sociale ogni 5mila abitanti. Più complicata la questione degli educatori. I candidati ci sarebbero anche ma restano intrappolati nel garbuglio formativo e normativo che avvolge la professione. «Non pochi posti restano scoperti perché i candidati non hanno il titolo specifico richiesto dalle singole amministrazioni», osserva Ceron. Esistono infatti due percorsi di studio: uno per l’educatore con formazione e abilitazione socio-sanitaria (classe di laurea Snt2) presso la facoltà di Medicina e un secondo per l’educatore socio-pedagogico (classe di laurea L19) iscritto a Scienze dell’Educazione. Una spaccatura che provoca incertezze applicative e abusivismi. «Abbiamo un sistema sanitario diverso per regione. Ad esempio, in ambito psichiatrico alcune chiedono l’educatore laureato a Medicina, altre no. Servirebbe una figura con una formazione di base uguale e magari con degli indirizzi specialistici», propone Vanni. Non si sa neanche quanti siano gli educatori. L’unico dato certo è quello degli iscritti all’albo ad hoc nato nel 2018 all’interno delle 19 nuove professioni sanitarie. A fine 2022 contava circa 28mila persone, 8mila delle quali iscritte agli elenchi speciali a esaurimento. «A questo numero andrebbe aggiunto quello di quanti sarebbero iscrivibili ma hanno scelto di non farlo perché invocano la presunta non obbligatorietà nel caso in cui non svolgano la propria attività lavorativa all’interno del Servizio sanitario, ad esempio in un servizio sociale comunale. Si potrebbe avanzare una stima di almeno altre 20mila persone», calcola Renato Riposati, presidente della commissione d’Albo nazionale educatori professionali. Il passaggio nel pubblico cela soprattutto la ricerca di stabilità lavorativa da parte di chi nel privato si barcamena fra cambi d’appalto. «La pubblica amministrazione assicura contratti migliori in termini di retribuzione, turni, premi, giorni di ferie», commenta Gazzi. Tesi condivisa solo in parte da Vanni che difende il contratto delle imprese sociali: «Nel pubblico diventi un numero, nelle coop sei spesso un socio e partecipi attivamente a una serie di attività». Il resto lo ha fatto il Covid. «Gli operatori delle cooperative hanno avuto la cassa integrazione mentre nel pubblico hanno continuato a prendere lo stipendio restando a casa», taglia corto la presidente di Legacoopsociali. Una stanchezza che finisce per spingere verso il pubblico quanti hanno continuato a lavorare durante la pandemia fra mille difficoltà, pensiamo alle Rsa e ai servizi educativi. I primi a fiutarlo sembrano essere stati gli immatricolati ai corsi a numero chiuso per educatore di area sanitaria. L’anno scorso solo 698 domande di iscrizione per 809 posti a disposizione. Un caso? A Novara solo 3 studenti per 74 posti.


Foto: Operatrice al lavoro in un centro socio-sanitario di Fondazione Sacra Famiglia a Cesano Boscone (Mi) – Pedrelli

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