Politica

La cooperazione allo sviluppo in una politica estera sempre meno trasparente

L’ultima vera relazione annuale sulle attività di cooperazione si riferisce al 2016. Il documento triennale di programmazione e di indirizzo è fermo al 2019. I dati pubblicati sui siti istituzionali sono parcellizzati e illeggibili, compresi i bilanci

di Nino Sergi

I dibattiti nelle aule parlamentari toccano ogni tanto anche la cooperazione internazionale per lo sviluppo. Quella cooperazione che fin dai decenni passati ha creato una rete di solidi e preziosi rapporti in molte aree del mondo, contribuendo a definire le scelte geopolitiche del nostro paese. La riforma legislativa del 2014 ha inteso rafforzarne la dimensione politica e le capacità operative, nella consapevolezza delle forze in Parlamento che le problematiche globali richiedono lo sviluppo di forti rapporti e legami in continenti divenuti ormai strategici.

Seguo spesso le discussioni parlamentari su questa materia e ho talvolta l’impressione che valga il detto che ‘fa più rumore un albero che cade di un’intera foresta che cresce’. In questa fase ci sono infatti tonanti attacchi alla cooperazione internazionale ma sono relativamente molto pochi e a volte arbitrari, imprecisi o senza alcun fondamento. Se poi si cerca di capirne le ragioni risultano evidenti almeno tre cose, che mi preme evidenziare perché vanno tenute in considerazione.

La prima è il pregiudizio politico che spesso, con gradazioni diverse tra i partiti, tende ad esternazioni da palcoscenico, sottovalutando il ragionamento e la valutazione, perfino ignorando la materia e puntando all’attacco emotivo e al discredito, a prescindere, della parte avversaria. Ci sono molte eccellenze che emergono in Parlamento, c’è approfondimento e seria discussione nelle commissioni parlamentari, ma spesso le Aule diventano l’occasione per recitare la scena. Che, al pari di quelle televisive ante epidemia, non dovrebbe impressionare più nessuno.

La seconda è la poca conoscenza. Lo dimostrano i contenuti di buona parte di queste radicali prese di posizione. Sono oggettivamente poveri e lacunosi quando non totalmente falsi (anche se pronunciati convintamente, anche se ripresi da giornali senza alcuna verifica). Un parlamentare non può certo essere un tuttologo ma dovrebbe avere l’accortezza, per la serietà della carica che ricopre, di verificare l’esattezza di quanto afferma, nella piena libertà di valutarlo motivatamente come crede. Ma non è sempre così.

La terza è l’approccio burocratico e centralista che domina nelle istituzioni della cooperazione per lo sviluppo, pur nel doveroso riconoscimento delle iniziative, dei risultati e della passione e dedizione personali di chi vi lavora. È bene che lo si evidenzi, perché anche questo approccio burocratico-centralista può favorire sia il pregiudizio politico, sia la poca conoscenza, sia il disinteresse dei media. Non si tratta di un’accusa ma della fotografia di uno stato delle cose che si trascina nel tempo e della consapevolezza che questa realtà, derivante da una concezione statica e accentrata della pubblica amministrazione deve riuscire a trasformarsi, in materia di cooperazione e partenariati internazionali, pena l’irrilevanza e il graduale declino.

Il Parlamento, con la riforma legislativa, aveva inteso proporre questa trasformazione, innovando rispetto al passato e valorizzando i soggetti della cooperazione, loro iniziativa propositiva, la capacità di azione: le amministrazioni dello Stato, le università e gli enti pubblici; le regioni, le province autonome e gli enti locali; le organizzazioni della società civile e altri soggetti operanti senza fini di lucro; le imprese e i soggetti con finalità di lucro che agiscano conformemente ai principi della legge. “Sono chiamati a lavorare insieme e promuovere azioni più coerenti, con maggiore impatto e maggiore efficacia” si legge sul sito dell’Agenzia; mentre su quello degli Esteri non sono nemmeno menzionati. Nei sei anni di attuazione della legge, invece di migliorare la normativa sulla base dell’esperienza maturata e delle nuove esigenze, come era stato auspicato nel dibattito parlamentare, la si è interpretata in modo sempre più restrittivo, esageratamente centralizzato e di conseguenza sempre meno conosciuto e trasparente.

L’ultima vera relazione annuale sulle attività di cooperazione si riferisce al 2016. Il documento triennale di programmazione e di indirizzo è fermo al 2019. I dati pubblicati sui siti istituzionali sono parcellizzati e illeggibili, compresi i bilanci, le cui relazioni illustrative rimangono incomplete e le programmazioni e ripartizioni finanziarie degli interventi mutano più volte nell’esercizio. Solo pochi e pazienti addetti ai lavori possono riuscire a leggere ed interpretare i dati, ma certamente non quelli che mancano, pur dovendo esserci. Non è possibile, in particolare, conoscere in modo articolato e trasparente i fondi assegnati o da assegnare annualmente all’azione dei vari soggetti della cooperazione previsti dalla legge. Serve forse per tenersi le mani libere per decisioni non programmate. Quindi forse una buona intenzione; ma si tratta di una mancanza non da poco, perché ne va della trasparenza istituzionale, della forza della programmazione, del sistema stesso della cooperazione, dell’efficacia dell’azione complessiva della cooperazione per lo sviluppo.

La pandemia del covid-19 non ha fermato il lavoro. I soggetti della cooperazione, in particolare le organizzazioni della società civile, stanno intervenendo con impegno sia in Italia che nei paesi più in difficoltà, in particolare in Africa e nel Vicino e Medio Oriente. Così è stato nel Maeci e nell’Aics, l’Agenzia per la cooperazione allo sviluppo: anche se ‘a distanza’ le attività sono continuate, con contatti e impegni politici da un lato e decisioni operative dall’altro. La pandemia ha portato, giustamente, all’assunzione di impegni multilaterali a sostegno dei programmi globali, indispensabili per la prevenzione, la cura, il vaccino, il sostegno alimentare. Sono programmi a cui l’Italia è sempre stata attenta, con erogazioni di fondi molto elevate (28 milioni per l’Alleanza globale per i vaccini e 52 milioni al Fondo globale Aids nel solo 2019, per limitarci a questi), mentre ben minore attenzione è stata normalmente data agli impegni bilaterali, che sono ugualmente indispensabili, dati i tanti partenariati internazionali costruiti negli anni che hanno acquisito un carattere duraturo, a reciproco interesse e vantaggio, e che non vanno traditi proprio nel momento del bisogno.

Sono sempre stato un multilateralista, sia a livello europeo che internazionale: i problemi che abbiamo e che avremo di fronte sono tali da esigere l’apporto coordinato e solidale di tutti. Ma questa visione multilaterale non ha mai cancellato la tensione a stabilire ed alimentare profondi rapporti bilaterali, che per uno Stato significano relazioni internazionali che possono portare reciproci e concreti benefici e convenienze, consolidare rapporti di convivenza e di pace, rafforzare il dialogo politico e al contempo fortificare l’iniziativa multilaterale. La stessa cooperazione internazionale dell’Italia è da tempo multilateralista, dato che si erogano annualmente ingenti fondi ad adempimento degli obblighi internazionale (+50% dell’Aps complessivo) oppure a titolo volontario (+150 milioni nel 2019), riservando alle iniziative effettivamente bilaterali un misero 10% dell’Aps negli ultimi cinque anni, emarginando in realtà l’iniziativa dei soggetti pubblici e privati della cooperazione voluti dal legislatore. Multilaterale e bilaterale devono essere rafforzati e proseguire coerentemente in modo congiunto e paritetico.

È bene parlarne perché le motivazioni di questa tendenza sempre più multilaterale della cooperazione istituzionale, a detrimento di quella bilaterale, dovranno essere valutate a fondo. I risultati di questi ultimi anni non si possono considerare positivi. Il rischio di cancellare quel tesoro di relazioni bilaterali costruite negli anni e che dovranno svilupparsi maggiormente nel prossimo futuro è infatti grande, con conseguenze che l’Italia pagherebbe caro. Perfino l’aiuto umanitario, stando al sito istituzionale degli Esteri, si è autolimitato ai “seguenti strumenti”: a) finanziamento di iniziative multilaterali, b) avvio di iniziative multi-bilaterali, concordate a livello bilaterale ma eseguite da un organismo internazionale; c) costituzione di fondi ad hoc presso le Sedi all’estero dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo. Quest’ultimo strumento mantiene spazi di attività bilaterali ma, stranamente, è usato con troppe incertezze, nonostante le urgenti sollecitazioni che vengono dai paesi, rimanendo inascoltate. L’azione ministeriale, primariamente finalizzata all’elaborazione e definizione delle scelte politiche e priorità degli interventi umanitari, tende a occupare spazi importanti di iniziativa operativa che spetterebbero all’Agenzia ed in particolare alle sue sedi estere, entrambe da rafforzare e valorizzare. Per non parlare della generale dimenticanza istituzionale, anche nell’aiuto umanitario, della disposizione legislativa che prevede l’impegno dei soggetti della società civile che “abbiano specifica e comprovata esperienza in materia“.

Che il tutto non sia supportato da alcun dibattito e alcuna verifica politica parlamentare che porti a chiari indirizzi e definite programmazioni, né da approfondite consultazioni con i soggetti della cooperazione voluti e riconosciuti dalla legge è qualcosa che dovrebbe iniziare a preoccupare tutti. E dovrebbe suscitare in tutti l’esigenza di un’attenta valutazione se si stia attuando e migliorando la legge voluta unanimemente dal Parlamento o se si stia andando, motu proprio, in altra diversa direzione.

*presidente emerito di INTERSOS e policy advisor di LINK 2007

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