Salute
La comunità come dimensione di luogo della cura, difendiamo il metodo Basaglia
L’approccio alla salute mentale come responsabilità pubblica è diventato realtà a Trieste, dando vita a quello che nel tempo è diventato un vero e proprio modello. Un modello oggi sotto scacco, soprattutto nella sua capacità di creare sinergie tra istituzioni, persone e privato sociale. Se ne è discusso in un evento organizzato dal Forum Disuguaglianze Diversità
di Marco Dotti
Il dibattito che si è acceso attorno a Trieste è importante. Ad accendere la luce è stata l’assegnazione, fortemente criticata, di un posto vacante di primario del centro di salute mentale di Barcola a un medico proveniente da Cagliari.
Non solo quel posto ha una densa carica simbolica – il centro di Barcola fu il primo aperto, nel 1975, da Basaglia – ma, secondo i più critici, proprio per le modalità con cui il concorso si è svolto, si tratterebbe di un tassello di un mosaico più ampio. Un mosaico che vede sempre più messa sotto scacco un’esperienza esemplare: l’esperienza triestina di cura e territorio.
Questo è stato il focus del seminario organizzato ieri dal Forum Disuguaglianze Diversità, alla presenza di Franco Rotelli, già Direttore Generale della azienda sanitaria triestina, della psichiatra Serena Goljevscek, di Kevin Nicolini, Referente della MICROAREA di ZINDIS cooperativa sociale La Collina, Elena Granaglia dell’Università Roma Tre, di Francesca Moccia, di Cittadinanzattiva, del coordinatore del Forum DD Fabrizio Barca e di Andrea Morniroli, della Cooperativa Dedalus, che ha moderato il tutto.
Un problema del Nordest? Non proprio. Il tema riguarda tutto il Paese. Riguarda il benessere, le pratiche di cura e di assistenza territoriale. Ed è un tema fondamentale, vista anche l’insistenza del PNRR sul legame fra cura e territorio.
Ma che cosa sta accadendo a Trieste? Lo spiega Franco Rotelli, uno dei protagonisti della grande stagione della riforma psichiatrica italiana. «Questa storia, di cui parliamo nel luglio 2021 è iniziata esattamente nel luglio… di cinquant’anni fa». È iniziata nel 1971, quando con Basaglia Rotelli arrivò a Trieste. «In questi cinquant’anni chi ha preso parte a quest’esperienza ha sempre lavorato nella direzione di una “città che cura”».
Parlare di “città che cura”, spiega ancora Rotelli, «significa mettere insieme le risorse del pubblico e del privato, sociale e tout court. Risorse formali e informali, servizi deputati e servizi apparentemente lontani fra loro. Usando come collante il protagonismo della gente».
Tutto questo «mettere insieme è ciò che abbiamo sempre considerato fondamentale per rispondere ai bisogno delle persone». Per rispondere a questi bisogno occorre una consapevolezza: «i servizi pubblici on ce la fanno,da soli, e non ce la fa nemmeno il privato sociale e, certamente, da sola non ce la fa la gente».
Che cosa bisogna mettere in campo, allora, perché una città si prenda davvero cura dei propri cittadini? «Quello che abbiamo fatto a Trieste – prosegue Rotelli – è stato far leva su una sinergia generale: le istituzioni pubbliche devono diventare protagoniste di questa sinergia e muoversi in direzione della complessità».
L’accanimento rispetto all’esperienza triestina, in un momento in cui mai come prima si parla di comunità e territorio, lascia senza parole. Ma le ragioni profonde di tale accanimento, osserva Fabrizio Barca, sono forse più semplici di quanto non appaia. «Non vedo un complotto, né l’intelligenza di coltivare rabbia nei confronti dell’esperienza triestina in sé», ha rimarcato Barca. Ma «vedo la volontà di sfruttare una situazione». Ovviamente: a fini di profitto. Come? Spezzando le sinergie, parcellizzando le competenze, settorializzando i bisogno e funzionalizzando i servizi declinandoli a prestazioni.
Per curare, commenta Rotelli, bisogna invece guardare a una sostenibilità inclusiva, sociale, non meramente finanziaria. «Bisogna che tutta la città si metta in movimento». Verso dove? «Verso la cura». Che è un concetto molto ampio e inclusivo. Oggi, però, questo movimento sembra essersi arrestato. O, quanto meno, sta incontrando sul proprio percorso forze contrarie che guardano a una politica sanitaria di segno opposto: settorializzata e fondamentalmente slegata dai territori.
«Una Giunta regionale di destra», denuncia Rotelli, «cerca di sfogliare questa realtà come se fosse un carciofo: alla prima occasione toglie una foglia. Cerca di ridurre risorse, appoggi, coesione. Si sta spingendo lentamente verso un riduzionismo e una semplificazione ospedalocentrica e biomedica di tutte le questioni sanitarie». Essersi fatta carico della complessità è la colpa dell’esperienza triestina? Probabilmente sì.
Eliminare le sinergie – partendo da Trieste – è però il rischio (anch’esso: sistemico) individuato da Rotelli. Se cade Trieste, cade l’avamposto di una cultura della cura che no ha eguali nel Paese.
Ma, conclude lo psichiatra con una nota di ottimismo, «credo non ce la faranno». Perché questa esperienza ha una sua evidenza e ha fatto maturare in molti la capacità di capire, anche fuori Trieste, nel Paese e all’estero «quanto sia stata importante e soprattutto sia attuale questa mobilitazione corale di risorse e energie avviata negli anni di Basaglia e proseguita fino al tempo del Covid».
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