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La complessità e Romano Prodi

di Paolo Dell'Oca

Da giovanissimo sulla carta d’identità, a fianco di “Segni particolari”, avrei potuto scrivere “cattocomunista”. E, se l’avessi fatto, oggi dovrei correggerlo in “buonista” (catto) e “radical chic” (comunista). Tempi duri.

Sta accadendo tutto così velocemente che non riesco a stare dietro né alla realtà né alla narrazione della realtà. Con milioni di voti decidiamo che la colpa della crisi economica, dell’aumento della disuguaglianza sociale, della crescita della disoccupazione e dell’esclusione dell’Italia dai Mondiali sia da ricondursi a quelle decine di migliaia di poveri diavoli (sì, ricchissimi rispetto ai loro concittadini che non possono permettersi la traversata dell’inferno) che rischiano la vita per la speranza di viverla meglio.

Va tutto così dannatamente veloce, in un click trasformiamo cadaveri di bambini in bambolotti e ululiamo tronfi. No, non ce la faccio, è più forte di me, è tutto troppo in fretta, non ce la faccio.


Sono cose che fanno pensare, ad avere tempo di farlo, perché è la realtà ad essere complessa e convengo con Saviano (17’10’’) che la viralità su Facebook, Instagram e Twitter ha i tempi immediati dell’indignazione, mentre il ragionamento non sarà mai virale per gli algoritmi. Dissento invece con il giornalista quando mi dà ad intendere che il diritto alla complessità sia la nostra resistenza, è una posizione che rischia di diventare un arrocco: se resistere significa "far capire", dobbiamo batterci per la semplicità, per una comunicazione fresca, efficace, che non neghi la profondità, ma la anticipi.

Dobbiamo farci semplici, credo. Lo stesso Saviano ha saputo farlo: ai libri, ai reportage e agli articoli affianca oggi performance teatrali, post sui social e interventi in televisione. Farci semplici e non semplicistici. Abitare i mezzi (social network in primis) e le forme (i video, le infografiche, gli slogan). Trovare nuovi modi, perché un modo diverso è possibile. Cantavamo qualcosa del genere a Genova 17 anni fa, o no?

Un po’ per gioco un po’ per desiderio un paio di mesi fa ho buttato giù un mucchietto di parole per qualcosa di sinistra, da firmare, che poi è diventato qualcosa d'altro, più adatto, e io quelle parole le metto qua.

Se la parola è la sorella stronza della musica*, a noi le righe sotto piacerebbe cantarle. Siamo qui, siamo in quattro e siamo qui, finestrini socchiusi su strade indifese dal loro pesante PD. Ma questa base è vecchia, vogliamo basi nuove, una ribellione sulla Luna di Endor in compagnia del man on the moon. A contemplare Endor, a produrre sapere, a riscoprire sapore. Insieme. Queste firme sono ferme e sono tremule, perché già ci stiamo muovendo, che il tempo è questo e c’è da camminare e c’è da fermarsi e da formarsi. Guardandosi dentro agli occhi celati dalle etichette, unendo i punti di vista e studiando l’immagine che ne esce. Studiando i ponti di vista tra le culture, impontarci di fronte ai duri&muri, mirando all’orizzonte. L’innovazione e la sinistra progressista. Che sinistra vuol dire battersi contro le disuguaglianze, che se le parole hanno un significato vuol dire che quando cresce il divario da chi sta in alto perdiamo tutti. E se le parole hanno due significati vuol dire che un modo diverso è possibile. Un modo diverso di stare al mondo, di guardare al mondo. Un mondo di versi, che il mondo è l’ambiente e l’essere umano è solo uno degli esseri che lo abita per un po’. La società dev’essere a misura d’uomo e non l’uomo a misura della società. E una battaglia dal basso è una battaglia dove il reddito è strumento di dignità umana. Dove gli storti vedono rispettati i loro diritti. E contano. E cantano.

Trovare nuovi modi. All’interessantissimo convegno organizzato da Amref “Voci di confine: la migrazione è una storia da raccontare. Per davvero”, Chiara Ferrari di Ipsos ha spiegato che nel confrontarci con chi guarda alla migrazione come un’invasione emergenziale non è possibile servirsi dei dati. Le persone temono di essere manipolate quando vengono loro sciorinati dei numeri, ed è difficile trovare chi li sappia padroneggiare, come certificano diverse ricerche Ipsos a riguardo: gli italiani pensano che gli immigrati siano il 30% della popolazione (sono il 9%), che i disoccupati siano il 49% (11%) e che gli over 65 anni siano il 48% (sono soltanto il 22%).

La stessa Ferrari ha anticipato dei passaggi di un rapporto che segmenta la popolazione italiana in personas, individuando in 2 dei 7 profili quelli su cui è possibile lavorare con una contronarrazione.

Sì, ma se non è efficace usare i dati a cosa ci si appoggia? Una delle risposte che emerge da quella mattinata è l’invito a parlare di fatti e di percezioni (come nascono, come contrastarle).

E uno dei due profili con cui è necessario interagire sarebbe composto dai “moderati disimpegnati”: gli “imbrogliati dai genitori”, giovani, egocentrici, acrobati della vita, cittadini del mondo per caso o per scelta. Giovani. Sì, e come si parla ai giovani?

Matteo Corradini è ebraista e scrittore, e spesso incontra ragazzi e alunni in percorsi didattici sulla Memoria: in un intervento di maggio a Fondazione Ambrosianeum sull’antisemitismo mi ha folgorato:

“Ciò che per noi è importante non è detto che lo sia anche per i giovani. Se lo pensiamo mancheremmo di rispetto ai giovani stessi”.

In tutto questo il livello di scolarizzazione italiano non è mai stato così alto, ovviamente, per quanto siamo fanalino di coda in Europa per percentuale di laureati, davanti soltanto alla Romania. E il numero di studenti con cittadinanza non italiana è crescente: le nostre aule sono sempre più interetniche. Due elementi che interpellano chi ambisce parlare ai giovani.

Un modo diverso è possibile, ma quale? Il tema è complesso e quello che serve ritengo sia comunicativo oltre che politico e culturale: dobbiamo essere capaci di trovare nuovi linguaggi per portare in maniera appassionante e brillante una contronarrazione ampiamente approfondibile da chi poi lo volesse fare. Non è marketing: è comunicazione.

Cosa c’entra Romano Prodi? Parliamoci chiaro, usare la parola complessità nel titolo di un post ne inibisce l’apertura alla maggioranza dei potenziali lettori. “Romano Prodi” è una parola chiave che ritengo attrattiva per il pubblico di Vita: il professore ha pubblicato un anno fa un libro intervista, Il piano inclinato, asciutto e denso, semplice, un excursus sullo stato del nostro Stato. Non so se riusciremo a invertire l’inclinazione del piano, ma tra meno di un anno ci saranno le elezioni europee e ritengo sia nostro dovere provarci. Nostro dei cattocomunisti, dei buonisti, dei radical chic. Di chi su quelle barche vede delle persone.

*Tony Laudadio, Preludio a un bacio

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