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La co-operazione alla prova del tweet

di Marco Dotti

In una delle opere centrali nell’elaborazione del suo pensiero, The Human condition (1958), Hannah Arendt ricorda che tutte le attività umane sono condizionate dal fatto che gli uomini vivono insieme. Solo una, tra queste attività, non potrebbe nemmeno essere pensata fuori dalla società umana: l’azione.
L’attività di lavoro non richiede necessariamente la presenza degli altri, ma un essere che lavori in assoluta solitudine, in un mondo ipoteticamente non abitato che da lui, non sarebbe umano. Sarebbe un animal laborans, non un costruttore. La Arendt insiste sulla precondizione affinché un homo faber ? l’uomo che si serve del lavoro delle proprie mani per fare “opera” ? possa considerarsi tale: lo stare insieme. C’è dunque una relazione profonda, che la filosofa tedesca non esita a definire speciale, tra l’agire e lo stare insieme.
Non è un caso che nei volumi della sua trilogia Richard Sennett non cessi di richiamarsi alla ricognizione e alla tipologia della vita activa fatta dalla Arendt, di cui è stato allievo. All’homo faber, l’uomo che produce artefatti e ne abita il mondo, Sennett ha infatti dedicato il primo di questi volumi, L’uomo artigiano, mentre alla condizione dell’essere-insieme e del co-operare è dedicato il secondo, Insieme. Termini e temi chiave, quelli del cooperare e dello stare-insieme, che ritornano anche in altri due importanti lavori di documentato taglio critico da poco proposti ai lettori italiani dalle edizioni Codice: Insieme ma soli (pp. 360, euro 27) della psicologa Sherry Turkle e Supercooperatori (pp. 332, euro 27) del biologo Martin A. Novak. Se Novak si propone di riflettere, smontando molti luoghi comuni sui suoi “geni egoisti”, sulla «specie più cooperativa, l’uomo», il lavoro della Turkle è dedicato alle possibili derive di questo percorso: «Perché ci aspettiamo sempre più dalle tecnologie e sempre meno dagli altri?». In rete, negli edifici tecnologici sempre meno abitati dagli altri, e sempre più popolati di fantasmi, non si opera e tanto meno si coopera, al massimo si “interagisce” e si “collabora”. Ma con chi? E, soprattutto, per cosa? Con concisione e sarcasmo, Winston Churchill ricordava che se «prima siamo noi a dare forma agli edifici, poi sono questi a dare forma a noi». Motivo in più per riflettere sullo stare insieme, anche partendo dal declino iper-tech della vita in comune.
Nei mondi virtuali e nei videogiochi, scrive la Turkle, «le persone si appiattiscono in personae. Nei social network le persone si riducono a profili. Con i nostri apparecchi mobili spesso ci parliamo muovendoci, e con poco tempo a disposizione. Comunichiamo con un nuovo linguaggio di abbreviazioni in cui le lettere sostituiscono le parole, e le emoticon i sentimenti. Non facciamo più la domanda aperta “come stai?” bensì domande più limitate come “dove sei?” e “cosa si fa?”. Sono buone domande per sapere la posizione dell’interlocutore e fare programmi semplici; meno buone per aprire un dialogo sulla complessità dei sentimenti. Siamo sempre più connessi l’uno all’altro, ma stranamente più soli». È in questo contesto che l’importanza dello stare “insieme” riemerge, mostrando nella sofferenza, nel nuovo disagio e nelle nuove solitudini, una non ancora sopita ansia di vita activa e comune che in molti si ostinano a leggere ? rovesciando le carte ? come mero sintomo.


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