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La clinica transculturale che aiuta a superare i traumi della migrazione

A Milano una delle poche cliniche specializzata nel sostegno alle famiglie di migranti. Un servizio pubblico attivo dal 2003. Qui arrivano soprattutto i casi dei minori migranti e delle loro famiglie per elaborare i traumi legati alla migrazione. Ad accoglierli un setting di gruppo composto da un’equipe di diverse psicoterapeute e tirocinanti

di Ottavia Spaggiari

«Mi sono davvero sentita sotto al Baobab, dove i problemi vengono condivisi e superati grazie all’aiuto di tutti», così una delle signore che hanno avuto accesso al servizio della clinica transculturale di Milano ha raccontato il suo percorso di terapia familiare, specializzato proprio nei percorsi di sostegno alle famiglie di migranti. Un servizio pubblico attivo a Milano dal 2003, gestito dalla Cooperativa sociale Crinali e a suo tempo aperto in collaborazione con il Servizio Famiglia dell’ASL di Milano e oggi con l’ATS Città Metropolitana di Milano.

Qui vengono indirizzati dai consultori familiari soprattutto i casi dei minori migranti e delle loro famiglie, sulla base di due indicatori principali. Da una parte la percezione che alcuni aspetti legati alla sofferenza del minore o dei genitori siano legati al tema della mancanza dell’elaborazione del tema della migrazione e quindi ci sia un trauma legato ad esso e dall’altro il fatto che il malessere sia legato alla presenza di elementi legati alle cosiddette “eziologie tradizionali”, ovvero rappresentazioni tradizionali legate alla cultura del Paese d’origine, come la convinzione di essere stati vittime di una fattura o del malocchio.

«Per molti migranti il setting gruppale è quello che risulta più efficace. Le persone si sentono a proprio agio», per questo ad accogliere i pazienti è un’equipe di terapeute, una psicoterapeuta principale e due o tre co-terapeute, oltre a due mediatrici linguistico-culturali, l’interprete della lingua d’origine dei genitori, psicologhe tirocinanti o stagisti.

Un servizio di secondo livello che tiene conto della specificità delle problematiche di chi proviene da una cultura completamente diversa e si trova a vivere una quotidianità molto lontana da quella che ha sempre conosciuto. L’attenzione estrema al paziente si ritrova nella stessa complessità del modo in cui è organizzato lo spazio, un semicerchio all’estremità del quale è seduta la famiglia, come se tutti i terapeuti fossero seduti intorno a loro per accogliere i pazienti e, in qualche modo, proteggerli.

«Il gruppo diventa un luogo sicuro multiculturale, in grado di contenere emozioni e rappresentazioni diverse», spiega Luisa Cattaneo, responsabile del servizio per la cooperativa Crinali. «È un setting impegnativo da mettere insieme».

Ispirato al modello messo a punto dalla professoressa Marie Rose Moro, all’Ospedale Avicenne di Bobigny a Parigi, questo “dispositivo di terapia” è stato modificato dal gruppo di psicoterapeute della Cooperativa Crinali, per calzare il contesto italiano. «Il gruppo diventa un luogo sicuro multiculturale, in grado di contenere emozioni e rappresentazioni diverse».

Ogni terapeuta o mediatrice culturale può intervenire per proporre spunti di riflessione e interpretazioni diverse. A turno, nelle diverse sedute però è una delle psicologhe a prendere le redini della sessione, diventando così il punto di riferimento per la famiglia, l’unica con cui i pazienti si confrontano direttamente, colei che filtra tutte le suggestioni provenienti dagli altri terapeuti.

«È una sorta di direttore d’orchestra. Fa filtro a tutti i racconti controtransferali, tutto ciò che viene detto passa attraverso di lei, anche le traduzioni».

Più spunti e voci emergono, meglio è. «È un modo per dare un senso alle esperienze che stanno facendo» e il fatto di avere anche il contributo di due mediatrici culturali, una proveniente dal nord Africa e l’altra dal Sud America è un valore aggiunto. «Nel gruppo emergono idee diverse e i pazienti possono prendere le esperienze che sentono più vicine».

Lunga anche la durata della seduta, che varia dall’ora e mezza alle due ore perché, spiega Cattaneo, «bisogna calcolare il tempo necessario per la traduzione».

Varie le tematiche tra le famiglie ma alcune sono ricorrenti, come quella della solitudine.

«Il grosso del lavoro è quello della costruzione della storia, si tende a dimenticare che nei Paesi d’origine la vita era difficile», l’obiettivo è ridare un senso al percorso della famiglia e dei singoli che la compongono. «Nelle famiglie con un progetto migratorio emerge molto forte il tema della rottura. Il conflitto tra il tentativo di portare il proprio bagaglio culturale in un nuovo contesto in cui tutti i tuoi riferimenti non esistono più».

D’altra parte la migrazione è uno degli eventi più stressanti nella vita di una persona, ma ci sono delle variabili che incidono sui diversi atteggiamenti delle persone. «Molto dipende dalla storia pre-migratoria. In diversi casi emerge un passato di abusi, inoltre vi è il tema del progetto, le aspettative delle persone, le condizioni di accoglienza, se sono partiti insieme alla famiglia, o se hanno lasciato indietro familiari. Quando le cose non vanno bene nel nuovo Paese il rischio è che questo si traduca in una paura diffusa del mondo, una sfiducia negli altri e un abbassamento dell’autostima».

Moltissimi i casi di chi ha avuto un ricongiungimento familiare.

«Una storia tipica è quella della mamma che emigra dal Sud America, lasciando la figlia piccola alle cure della nonna. Dopo anni di lavoro in Italia, riesce finalmente a portare qui anche la figlia, che però è già adolescente e si ritrova improvvisamente in un contesto culturale e affettivo completamente nuovo, senza nemmeno conoscere la lingua, lontana dai suoi affetti. Nel frattempo magari la madre ha anche trovato un compagno e ha avuto un altro figlio».

Storie complesse, di fili spezzati, rotture e rincontri. «Questa seduta ha una funzione di contenimento dei dolori e dei conflitti. I genitori decidono ma i figli poi da un giorno all’altro si ritrovano a vivere in condizioni completamente nuove».

A volte invece qui arrivano figli cresciuti in Italia e già perfettamente integrati nel contesto in cui vivono. «Una causa di disagio o di conflitto può essere legata alla concezione tradizionali di gene, per cui a volte i genitori hanno delle aspettative che i figli non vogliono o non possono rispettare», spiega Cattaneo. «Il rischio è che i genitori si irrigidiscano sulle loro posizioni». E la questione di genere non riguarda solo genitori e figli, ma anche le donne adulte che arrivano qui da sole, prima dei mariti e del resto della famiglia. «Le donne diventano di fatto il capo famiglia. Sono quelle che hanno già un lavoro e riescono ad orientarsi in un ambiente completamente nuovo». Il cambiamento dei ruoli non sempre è riconosciuto e accettato da tutti. «Può capitare che quando vengono raggiunte dal resto della famiglia tutti gli equilibri si alterino. Lo status che i mariti avevano nel Paese d’origine viene modificato e qui bisogna lavorare per lo sviluppo di un nuovo equilibrio».

Anche per la complessità dell’organizzazione le sessioni per ogni famiglia sono solitamente organizzate una volta al mese

«Cerchiamo di costruire una storia condivisa di tutta la famiglia. Nel quale ricondurre anche la storia della migrazione». Percorsi a volte lunghi, dolorosi e complessi ma, spiega Cattaneo, «a volte qui succedono dei veri e propri piccoli miracoli terapeutici».

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