Cultura

La civiltà intollerabile e l’unico idolo da non bestemmiare

Se con l’11 settembre si è determinata la cornice all’interno della quale sono progressivamente appassite tutte le proposte politiche di centro-sinistra in Europa, dopo i fatti di Parigi viene nuovamente "sancita l’indiscutibilità di alcuni cardini dell’ordine internazionale, che sono divenuti il vero dio di cui non si può bestemmiare il nome". Per quel "dio" cederemo ogni nostra libertà di critica? Un dialogo a tutto campo con Adone Brandalise,professore all'Università di Padova

di Marco Dotti

Crudeltà, tradimento, divisione, rabbia animalesca, frode, guerra. Contrapposte alle virtù, le personificazioni di "crudelitas", "proditio", "divisio", "furor", "fraus" e – immancabile – la guerra formano la corte  di una semidivinità strabica, abbigliata con vesti da diavolo, che vede e non vede e obnubila il discernimento di tutti: la Tirannide. Simbolo di malgoverno nell'affresco del ciclo che Ambrogio Lorenzetti realizzò tra il 1337 e il 1340 per la Sala del Consigno dei Nove, nel Palazzo pubblico di Siena, la tirannide sovrasta la giustizia, che giace a terra, legata mani e piedi. 

Allegoria del Cattivo Governo di Ambrogio Lorenzetti, Palazzo Pubblico di Siena

Un altro affresco ci mostra la campagna in fiamme, le botteghe abbandonate, mentre per strada non si vedono che soldati in armi. La comunità è allo sbando. Reagisce, più che agire. Senza discernimento, non può esserci che un tirannico legalismo senza giustizia. Come ha ricordato l'antropologo Jean-Loup Amselle, in un intervento che abbiamo pubblicato (►qui).

Di contro, parliamo di "libertà", di "diritto alla libetà", anche se questa libertà si rovescia sempre più in licenza e coincide con una vana fuga da tutto ciò che ancora chiamiamo "democrazia". Appena pronunciata, questa parola ci spinge sui margini di una completa ambiguità, anche a fronte di diseguaglianze sostanziali e formali crescenti, che potremmo sintetizzare con la domanda: la democrazia è forse, paradossalmente, il sistema politico che ci poterà fuori dalla stessa democrazia e, magari, anche fuori dal politico? Fatto, questo, che condannerebbe non tanto l'idea democratica, quanto la sua realizzazione concreta. La questione è aperta, soprattutto dopo i fatti di Parigi che hanno impresso una rapida deriva alla contrazione dei diritti. In Belgio si discute di cittadinanza a scadenza, mentre una stretta sulla privacy e la riservatezza a livello europeo è data per imminente. E l'impressione è che si sia solo all'inizio. 

A margine di queste riflessioni, dopo il primo dialogo di sabato scorso con il professor Marco Bassani (►qui), abbiamo incontrato  Adone Brandalise, professore all'Università di Padova, attento osservatore delle cose che accadono, filosofo, autore di molti lavori dedicati al tema dell'intercultura, reduce dal recente "Rencontre Mondiale du Soufisme" della Tariqa Qadiriya Boudchichiya, sollecitando la sua riflessione soprattutto sul "dopo" dell'evento parigino.

Dell'evento non si butta niente

Nel montaggio degli eventi che hanno seguito l'attentato alla redazione di "Charlie Hebdo", il 7 gennaio scorso, si sono succedute immagini su immagini. Ci può dare una sua prima lettura, partendo dal "dopo"? 

Adone Brandalise: Ciò che si è determinato a partire dagli eventi parigini, per molti versi può definirsi totalmente prevedibile e, per altri, totalmente sorprendente. Ciò che rientra nella prima di queste due configurazioni – il “totalmente prevedibile” – è il determinarsi pressoché immediato della messa in campo di tutta una serie di linee di sfruttamento dell’evento, secondo le modalità della coppia classica “terrorismo-antiterrorismo” e secondo il principio – caro alle retoriche e ai calcoli di tutti i soggetti che in qualche modo vi intervengo, nel senso più lato, “politicamente" – secondo cui di un evento simile non si lascia nulla di inutilizzato. Sotto questo aspetto, come le fasi successive confermano, si è immediatamente configurato il richiamo all’11 settembre e – fondato o meno che fosse il parallelo, in maniera purtroppo convincente – la relazione col determinarsi di un funzionamento politico internazionale che subordina un complesso di altre dimensioni della vita sociale e politica alle esigenze – almeno a quelle “dichiarate” – di sicurezza.

L’11 settembre ha permesso di tracciare un quadro generale all’interno del quale ancora ci muoviamo…

Adone Brandalise: Credo che con l’11 settembre si fosse determinata essenzialmente la cornice all’interno della quale progressivamente sono appassite tutte le proposte politiche di centro-sinistra in Europa.  All’interno di questa cornice si è sancita l’indiscutibilità di alcuni cardini dell’ordine internazionale, che sono divenuti il vero dio di cui non si può bestemmiare il nome. In effetti, almeno in parte, è quello che si sta determinando anche adesso.

Fin qui siamo sul piano di ciò che era prevedibile, ma qualcosa di imprevedibile e imprevisto si è comunque prodotto…

Adone Brandalise: Meno prevedibile potevano essere infatti l’alzata di orgoglio di una coalizione culturale che, in un’occasione come questa, ha mostrato la propria dignità e forse anche alcuni dei limiti che la rendono singolarmente vulnerabile. Vulnerabile, voglio dire, di fronte a dinamiche generali che sono in sviluppo oggi e di cui anche lo specifico del terrorismo o della proliferazione bellica in alcuni contesti geografici costituiscono l’articolazione coerente. Coerente, intendo dire, in una prospettiva sistemica che può benissimo fare a meno di qualsiasi logica complottistica.

Il complottismo si assomma oggi alla tendenza tipicamente da feuilleton di ridurre, banalizzandola, la complessità. C’è però un aspetto interessante: l’eccesso di indizi. Troppi indizi, troppe immagini, troppe tracce disseminate sul terreno (dal grido "Dio è grande!", ai passaporti trovati su un'automobile), come in un eccesso di evidenza che sembra chiamare e dare preventivamente parola, se non proprio ragione, a chi urlerebbe comunque al complotto…

Adone Brandalise: Ricordiamoci sempre che il complottismo è essenzialmente una forma di protezione della inadeguatezza culturale dei soggetti all’interpretazione delle dinamiche in cui sono catturati. Il complottismo è un modo essenzialmente mitico – di cattivo mito, in questo caso – di comprensione di una complessità che, in realtà, proprio nel momento in cui la si ritiene compresa, sfugge. Si ritiene che “vi sia dietro” qualcosa, perché la complessità di quanto ci sta immediatamente davanti non si lascia afferrare. E poiché questa realtà gli sfugge, mette colui alla quale sfugge in condizione di essere portato dagli eventi e non di poterli condizionare sulla base di un progetto. Non è un caso, d’altronde, che il complotto, nella forma più diversa, costituisca il presupposto fondatore di alcuni soggetti deliranti che sono nella proposta politica e movimentista attuale.

A chi si riferisce?

Adone Brandalise: A coloro che, sostanzialmente, costruiscono un “noi” a partire dalla finzione di un “loro” nei confronti dei quali l’aggressività è legittimata o addirittura obbligatoria o – peggio ancora – voluta da Dio.

Il complottismo ci ha portato dalla lotta alla banalizzazione continua. Ogni volta che si parla di Islam, banalizzazione e approssimazioni si moltiplicano…

Adone Brandalise: Forse un discorso sensato che riguardi l’Islam, a partire da questo contesto di situazioni, avrebbe bisogno di un discorso fondamentalmente non centrato sull’Islam.

Per quale ragione?

Adone Brandalise: Perché si rischia di far carico a questo significante di un ruolo centrale in tutta una serie di discorsi che vorrebbero e dovrebbero spiegare molte cose, ma che con l’Islam non si spiegano. Ci inoltre molte cose che riguardano anche i musulmani, i loro comportamenti e i loro destini che non possono essere caricati in una definizione dell’Islam.

L’immagine tiene, però e quando si comincia a far prevalere il senso comune, sul buon senso di manzoniana memoria, tutto è possibile…

Adone Brandalise: Abbiamo in effetti la costruzione di un’immagine abbastanza coerente. L’immagine di un Islam che va dal terrorismo efferato, fino al sospetto di una disponibilità latente alla violenza che sarebbe insita, non si sa bene se nella religione o in una caratterizzazione etno-antropologica di coloro che prevalentemente la vivono come propria. Per molti, i musulmani sono divenuti “portatori sani” di un terrorismo possibile. Rispetto a questo, si vede fino a che punto, negli ultimi anni, si sia determinata una complicità per certi versi involontaria con una moderazione islamica che ha preso in realtà l’aspetto di un ripiegamento dell’Islam su se stesso.

I primi a non accorgersene sembrano però gli intellettuali vicini a questo mondo…

Adone Brandalise: Il ripiegamento a volte è declinato in pura afasia e in assenza di ricerca, a volte in una ritrosia desiderosa di proteggere una propria presunta unità di Umma, a volte nel silenzio timoroso di disturbare troppo, con la propria sola presenza, la comunità – pensiamo all’Europa – degli “ospitanti”. Detto in altri termini, si nota una certa difficoltà a mettere in gioco un grande patrimonio culturale, nel modo in cui i patrimoni culturali chiedono di essere messi in gioco: non come monumenti ai quali tributare sacrifici o verso i quali ostentare una fedeltà ripetitiva, ma nella dimensione creativa di un presente.

Tutto questo è stato anche coinvolto in una tendenza a credere, nei nostri paesi occidentali, alla progressiva sotto-valorizzazione del capitale umano e, quindi, anche una tendenza non del tutto passata, anzi una tendenza che sembra fortissima a concepire la pluralità delle configurazioni culturali, la pluralità delle configurazioni religiose, ma anche linguistiche e via discorrendo, come inutile complicazione rispetto alle cose che contano ma, a conti fatti finiscono per contare sempre meno.

Quali sarebbero le “cose che contano” in questo contesto?

Adone Brandalise: Evidentemente, le forme dell’obbedienza al comando forte della finanza, dei mercati, del profitto. Tutte approssimazioni – lo riconosco, nel momento stesso in cui me ne servo – ma che alludono a quelle cose che ci dicono: “parlate inglese”, “parlate in questo modo” e tutto il resto, nella migliore delle ipotesi, riducetelo a un consumo privato. Meglio, poi, se anche questo consumo privato movimenta del denaro. La logica, nella sua approssimazione, è questa. Finché uno rimane nell'angolo e consuma, tutto bene. Pensiamo a tutto il mercato dell’ḥalāl. Consideriamo pericolosissimi i musulmani anche quando respirano, ma se comprano… Allora sono trattati con disponibilità.

D’altronde, il 16% dei consumi alimentari globali riguarda il segmento di mercato ḥalāl. E questo ci riporta a quell’unico dio contro cui non si può bestemmiare, cui ha fatto cenno prima. Chiamiamolo "Finannzmarkt-Kapitalismus" o finanza, giusto per capirci…

Adone Brandalise: Nei primi tempi della crisi, che dal 2008 sta segnando le magnifiche e progressive sorti del nostro mondo, un broker affermava:  “vedete, se il Paese fallisce a noi va bene. Se il Paese non fallisce e si riprende, a noi va bene lo stesso”. Un’affermazione per certi versi elementare, ma franca che rimanda però a un qualcosa contro il quale le armi della critica sono spuntate.

Abbiamo una lamentazione umanistica, che ha i suoi ottimi motivi, ma sempre più assomiglia al lamento di chi ha già perduto. L’alternativa, che ci piaccia o no, sarebbe quella di portare un’organizzazione dell’intelligenza all’altezza dell’intelligenza delle forme più forti del post-capitale. All’altezza di ciò che chiamiamo, eludendone la sostanza e forse non capendone né poco né tanto, “finanza”. Anziché concentrarci in questa impresa, assistiamo invece a una sorta di processione di persone bene intenzionate che sfilano per riaffermare una serie di valori. Niente in contrario, ma la sensazione è che il disastro di questi anni spieghi essenzialmente che tutto quello che si sta chiedendo è proprio ciò che non basta. D’altronde, il bazar delle banali non-novità è sempre aperto e ben frequentato. Proprio per questo occorrerebbe un pensiero della complessità e della pluralità che avesse modo di funzionare.

Che cosa intende dire quando afferma che questo pensiero deve “funzionare”?

Adone Brandalise: Intendo dire che abbiamo bisogno di un pensiero che possa dimostrare di essere in grado di venire a capo dei problemi della nostra esistenza. Un pensiero più ricco, più capace, più ospitale. Più redditizio, in qualche modo. Non è semplice, ma è precisamente ciò di cui abbiamo bisogno.

Oggi però abbiamo tutt’al più un richiamo ai valori…

Adone Brandalise: Qualsiasi affermazione valoriale, quando entra in una dinamica per dir così “tecnicamente importante”, lo fa perché il “valore” è diventato il modo per sintetizzare una serie di altri motivi. Quando si alza la bandiera dei “valori umani”, accanto c’è sempre qualcos’altro. Senza voler ridurre questi valori a paravento. Non si sarebbe fatta la guerra contro la schiavitù se non fossero entrate in gioco anche altre dinamiche relative a destini economici, politici, di assetto. Non si sarebbe fatta guerra all’Irak, contro un dominio obiettivamente mostruoso, se non ci fossero stati altri motivi di ordine e grado diverso. Questo è un dato elementare, ma forse conviene ribadirlo.

Questa pluralità di motivi vale anche per il mondo islamico, milioni di persone in piazza, dalla Cecenia a Algeri… Ma leggere queste sollevazioni come un mero effetto della causa-Charlie Hebdo è una semplificazione fuorviante…

Adone Brandalise: Se oggi le masse islamiche vengono messe nella condizione di muoversi con tanto vistoso clamore è perché esiste una serie di condizioni che fanno sì che una manifestazione violenta di dissenso nei confronti di quello che possiamo chiamare, dal loro punto di vista, “Occidente”, si sono accumulate e cercano dei momenti sintetici. In Cecenia, ci sono molti motivi per i ceceni di non essere contenti. Ce ne sono altrettanti in Algeri. Ce ne sono altrettanti dappertutto nel mondo e, probabilmente, il riferimento all’Islam una volta di più bistrattato può fare da collante ideologico.

Adone Brandalise: Tra l’altro, la celebrazione dell’immarcescibile spirito voltairiano o presunto tale nella nostra Europa sta avendo degli “splendidi” risultati. La differenza, che è radicale ed è  sentitissima nel mondo islamico, tra coloro che hanno compiuto scelte di tipo  salafita o addirittura militarista e le moltissime altre componenti di mondi che sono in varia misura legati all’Islam, ecco, questa differenza si sta con tutta evidenza annacquando. Nelle manifestazioni con migliaia e migliaia di persone, ci sono musulmani mitissimi che probabilmente si considerano avversari dei terroristi, ma non capiscono perché debbano vedersi prendere a schiaffi a mezzo stampa. Vi sono poi coloro che ovviamente ne approfitteranno per rilanciare la campagna militare o pseudomilitare di un presunto Islam armato.  E manifestando, oggi, queste due componenti si trovano una accanto all'altra. Ci sarebbero, anche qui, molte riflessioni da aprire.

Abbiamo inaugurato la modernità affermando che la sfera religiosa avrebbe, presto o tardi, liquidato se stessa. La postmodernità ci risvegliati al richiamo, spesso declinato solo in termini sociologici, del “ritorno” di religioni. La complessità di ciò che chiamiamo “religioso”, però, continua a sfuggirci…

Adone Brandalise: Una situazione del genere dovrebbe farci riattraversare – non certo con spirito museale, ma seguendo una prospettiva di dibattito epistemologico radicale – alcuni dei momenti fondativi della scienza sociologica. Momenti legati a un corpo a corpo, anche polemico se si vuole, ma coinvolgente con una dimensione filosofica. Sia Durkheim, che Weber sono inimmaginabili senza un rapporto con ciò che chiamiamo “religione”. Tutto sommato, a volte, ascoltando certi discorsi, si rimpiange la vastità di respiro di quei personaggi, anche se, probabilmente, le loro diagnosi sono proprio quelle che oggi entrano in crisi. La sensazione è che si sia prevalentemente affermata, come distillato di una visione sociologica, la convinzione che le religioni sono un fenomeno sostanzialmente arcaico, ancora molto vitale ma spiegabile sulla base di principi che in qualche modo appartengono a una cultura che ha archiviato la religione. Da una visione di questo tipo, discendono una serie di corollari: poiché la religione viene molto sentita in tutta una serie di porzioni del nostro mondo, le religioni vanno rispettate, in un certo senso capite attendendo che un’evoluzione sociale e, magari, un’evoluzione  della riflessione stessa interna alle religioni le liquidi risolvendo il problema.

Sociologicamente si potrebbe anche affermare che le religioni ci saranno sempre, ma la cosa decisiva è che l’essenziale della religione non è religioso. Il punto decisivo, ossia che l’essenziale della religione non è religioso, è una spiegazione che è il prodotto di una ragione per la quale la “religione” è stata compiutamente superata. Questo atteggiamento credo agisca paradossalmente anche in molti osservatori, magari personalmente religiosi, ma che dal punto di vista dei fatti storici e sociali ritengono di dover essere “scientifici” e, quindi, di dover operare sulla base di metodi e categorie che hanno in realtà la convinzione di cui ho detto sopra come presupposto. Negli ultimi anni, si è detto che, forse, le religioni stavano prendendosi una rivincita. Credo sia vero, ma avrei qualche perplessità a concordare con i motivi per cui si dice questo.

In realtà, la cosa a cui maggiormente si bada è il fatto che spesso si ricorra al simbolo religioso per produrre effetti politici…

Adone Brandalise: Siccome questa cosa riesce, ossia gli effetti del simbolo si dispiegano politicamente, allora se ne deduce che “la religione è tutt’altro che scomparsa”, perché riesce a svolgere ancora delle grosse funzioni al fondo non religiose. Io ritengo ci sia un’altra dimensione importante, che mette in campo non dico le religioni intese come grandi istituzioni – quelle che noi chiamiamo le “religioni organizzate” – ma una dimensione che non si riduce a un problema di mera spiritualità, che è essenzialmente il nodo religioso che riguarda gli aspetti fondamentali dell’esperienza umana e che, probabilmente, non è destinato a essere adeguatamente risolto dagli esiti di quella che chiamiamo una cultura laica. E neanche dagli esiti di tentativi di recupero utopistico-regressivo di forme di religiosità di altra epoca. Si apre uno spazio che chiamerei di un’età post-irreligiosa. Un’età in cui la polemica, come d’altra parte l’atteggiamento di difesa di una religiosità tradizionale, perdono entrambi significato. È uno spazio che richiederebbe una riflessione molto coraggiosa, non tattica e non schiacciata da usi politici.

Lei ha fatto cenno a Voltaire, ma è singolare che Voltaire venga citato oramai solo per qualche slogan copiato da wikiquote e stampato sulla velina di qualche cioccolatino. La libertà di espressione diventa così un apriori facile da declinare a giorni alterni…

Adone Brandalise: In questi giorni, si celebra la libertà di pensiero aggrappandosi non certo a un testo di filosofia, né a un romanzo, né a un’opera musicale, ma a delle vignette. Con tutto il rispetto che dobbiamo alle vittime, mi sia concesso di dire che è sintomatico il fatto che stiamo difendendo la libertà di pensiero attraverso il diritto allo sberleffo. Forse è solo questo che riusciamo ancora fare? Forse perché non sappiamo più porci all’altezza di un pensiero e, quindi, qualche vignetta di dubbio gusto e stile diventa l’unica pratica che abbiamo per percorrere il nostro presunto spazio intellettuale in termini di libertà? Lo ripeto a scanso di equivoci: massimo rispetto per le vittime e per chi ha subito quel che ha subito, ma proviamo a ragionare bene e a ragionarci fino in fondo. Siamo proprio sicuri che la libertà di espressione sia il principio su cui vivono realmente le nostre società? Quante, più o meno raffinate o grevi, forme di censura nel “nostro” mondo che difende con tanto slancio questa integrità di principi sono quotidianamente in atto?

Si ritiene forse che la parola “libertà” includa l’obbligo di ricezione passiva di un messaggio e delle intenzioni che gli vanno appresso, mentre sappiamo che la libertà comporta comunque un rischio, quanto meno di essere fraintesi. Il fraintendimento (tanto il frantendere, quanto il venire fraintesi), avviene in quello che Bateson chiamava il “frame”, ossia la cornice all’interno della quale i codici si articolano…

Adone Brandalise: Nel cosiddetto mondo globalizzato, che fine fa quella negoziazione che c’è sempre tra di noi nel definire un genere di comunicazione in cui ci troviamo nel momento in cui compiamo determinate scelte (ad esempio quella attraverso la quale tra di noi decidiamo se si sta scherzando o se si sta parlando sul serio, se si sta facendo satira o una comunicazione positiva di livello politico o culturale)? Si può scherzare su tutto, basta che ci si metta d’accordo che si sta scherzando. Lasciamo da parte per un momento i musulmani, pensiamo a persone vissute e cresciute nello stesso ambiente: qualcuno lancia uno scherzo che riguarda la sua famiglia, ma se l’altro crede che lo scherzo non sia spiritoso e si offende, che cosa accade? Che il primo, ossia chi ha lanciato lo scherzo, deve continuare per sostenere il suo diritto al motteggio, anche se chi riceve lo scherzo non lo vive come tale, ma come un motivo di afflizione? E il secondo, deve decidere che ogni scherzo è sempre e soltanto positivo e non comporta conseguenze negative, anche quando lo scherzo si traduce in una informazione che comporta costi reali per lui? 

Voglio dire: una cosa è sancire norme che impediscano la libera manifestazione delle idee. Un’altra cosa è il complesso di consuetudini che si pongono anche il problema della qualità di ciò che succede nel momento in cui si dice o si scrive o si disegna. Tutto sommato, lo sa qualunque autore. L’opera è sempre fatta da chi scrive, compone, disegna e da chi vede, legge, ascolta. Se c’è un radicale equivoco sui codici, forse non stiamo facendo quello che pensavano di fare. Faccio una bella battuta, viene letta come una violenta offesa, al di là che sia letta come tale, io mi trovo a non aver fatto la battuta che volevo fare…

Dopo il requiem per il messaggio, sembra si stia intonando anche il requiem per il medium. Alla fine, abbiamo visto come cambiando quadro, cambino i codici e si produca un cortocircuito che, a sua volta, può produrre incendi in ogni parte del globo…

Adone Brandalise: Nel cosiddetto mondo globalizzato,  ogni cosa che appare a Parigi può essere immediatamente letta in Giappone o in Perù, e gli effetti di distorsione e incomprensione possono risuonare e assumere una direzione o un'ampiezza impreviste. Poi c’è un altro aspetto, che meriterebbe una diversa riflessione. Quando si determinano reazioni internazionali di vasta portata a quelli che, sul piano globale, possono anche essere considerati dei colpi di tosse o degli starnuti, questo avviene perché le reazioni sono in larga parte direzionate da chi ha interesse a sovraesporre questi eventi per produrre dei risultati. Il problema è che, passando da Parigi a Tokyo, da Tokyo rimbalzando a Lima e da Lima ritornano a Algeri non mutano solo il quadro o i codici. Muta sostanzialmente la cosa che accade.

@oilforbook

L’ospite

L' ospite di oggi, Adone Brandalise, è professore di teoria della letteratura presso l'Università di Padova. Dal 1998, Brandalise  dirige il Master di Studi Interculturali promosso dalla medesima università e coordina l'attività di ricerca del Laboratorio di Studi Interculturali al Master collegato. Dal 2004 al 2008 è stato direttore del CIRSSI (Centro interdipartimentale di ricerca e servizi per gli studi interculturali, istituito presso l'Università degli Studi di Padova). Attualmente è delegato del Rettore dell'Università di Padova per la promozione delle ricerche interculturali e le iniziative per la città. Le sue lezioni, a opera degli studenti, sono raccolte sul sito http://www.adonebrandalise.info/

 

 

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